Corriere della Sera

«È il momento di cambiare: serve un nuovo socialismo»

Il sindaco: Milano prima della pandemia stava volando e quando cadi dall’alto ti fai più male Ora c’è una risposta, ma il blocco del turismo pesa

- Di Aldo Cazzullo

«Occorre un nuovo socialismo, è il momento di cambiare — dice il sindaco di Milano Beppe Sala al Corriere —. La sinistra deve recuperare un’idea politica di società». E anticipa il prossimo libro:

«Vi racconto la mia lotta contro un linfoma».

B eppe Sala, il suo nuovo libro si intitola «Società: per azioni». Cosa significa?

«È un titolo provocator­io. In questi anni la società è stata il vaso di coccio tra l’economia e la politica. È il momento di pensare alla società come a una creazione di valore: non più vaso di coccio, ma attore. La politica si sta occupando di amministra­zione; la sinistra stessa sembra limitarsi ad amministra­re, sia pure in modo diligente. Ma dobbiamo fare di più: riflettere sulla società del futuro, sulla trasformaz­ione del lavoro, sulla rivoluzion­e che abbiamo di fronte».

Lei scrive che oggi ci sono troppi lavoratori poveri. E ci sono lavoratori inconsapev­oli. Cosa intende?

«Ogni giorno, anche solo esprimendo le nostre preferenze e i nostri commenti online, diventiamo dati, e contribuia­mo a indirizzar­e i sistemi economici. Paradossal­mente dovremmo essere pagati per questo; Tiktok sta pure cominciand­o a farlo... I padroni della Rete diventano superdistr­ibutori. È un sistema malefico: da una parte inducono i nostri desideri; dall’altra acquisisco­no le aziende che producono gli oggetti che desideriam­o; infine ce li portano a casa».

La soluzione potrebbe essere cittadinan­za? il reddito di

«Sono stato tra i primi a sinistra a dire che dovevamo dialogare con i 5 Stelle. Ho una consuetudi­ne con Beppe Grillo: ogni tanto ci parliamo, ci vediamo. Ha idee interessan­ti. Ma preferisco il credito di cittadinan­za. Se parliamo di reddito, siamo sempre alla redistribu­zione; non incidiamo sui meccanismi di produzione della ricchezza. Quando invece riconoscia­mo un credito, anche a fondo perduto, a un giovane che ha una buona idea, lo mettiamo in condizione di creare ricchezza e lavoro per sé e per la comunità».

Ora i soldi, grazie all’europa, arriverann­o.

«Però, più che per i sussidi, serviranno per gli investimen­ti nell’ambiente e nel digitale. Dobbiamo prepararci a spenderli bene. Elaborare progetti. Non facciamoci illusioni: l’autunno sarà durissimo».

È preoccupat­o anche per Milano? Cosa cambierà con la pandemia?

«Quando cadi dall’alto, ti fai più male. Milano stava volando. Ora la città risponde: ogni giorno riapre un cantiere. Abbiamo fatto un accordo con Wizz Air, che ha scelto Malpensa come hub per l’europa del Sud: con l’indotto sono mille posti di lavoro. Ma molti di più rischiano di saltare, con il blocco del turismo, che impiegherà due anni a riprenders­i. Dobbiamo inventarci di tutto per non perdere i giovani. Milano è una delle più grandi città universita­rie al mondo, con 200 mila studenti. Ma Milano è una città costosa. I ragazzi vengono anche perché sanno che poi trovano lavoro. Dobbiamo far sì che restino».

Milano stava volando ma molte cose non sono sue. I grattaciel­i simbolo della rinascita sono degli sceicchi. Persino il Milan e l’inter non sono più milanesi. E le disuguagli­anze sociali

Il sindaco di Milano Beppe Sala, 62 anni, in carica dal 21 giugno 2016  La città inclusiva Nel libro cito il paradosso di Jevons: più ricchezza si crea, più si alimenta la povertà. Io credo in una città inclusiva, che tiene dentro tutti, anche gli ultimi Mi sento profondame­nte di sinistra La malattia Quando mi diagnostic­arono il linfoma non Hodgkin mi sentii gelare il sangue: mio padre era morto così. Una notte mi svegliai nel panico, non riuscivo a respirare: chiamai lo psicologo, mi fece quasi una seduta di ipnosi al telefono

aumentano.

«Nel libro cito il paradosso di Jevons: più ricchezza si crea, più si alimenta la povertà. Forse la ricchezza ha proprio bisogno di aumentare la dimensione della povertà, se vuole crescere e stiparsi in immense concentraz­ioni. Tutto avviene nelle città. Un tempo avevamo le città-stato; ora abbiamo le città-mondo. Io credo in una città inclusiva. Che tiene dentro tutti, anche gli ultimi. Mi ha colpito moltissimo una scritta che ho visto su un muro di periferia».

Cosa diceva?

«La loro verità comincia dove finisce la tua. È una frase poetica e disperata. Esclude il “noi”. Contrappon­e “loro”, il sistema, a “te”, la persona».

Lei fa parte del sistema.

«Certo. Non posso e non voglio abbatterlo. Ma posso e voglio cambiarlo. Anche recuperand­o idee e parole che abbiamo abolito e relegato nel passato».

Lei scrive di un nuovo socialismo. Ci crede davvero?

«Sì. Ricordo quando in tv assistetti alla fine del socialismo italiano: la scena delle monetine fuori dal Raphael».

Era la fine di Craxi. Su cui però lei nel libro non si esprime. Perché?

«Non voglio riaprire un dibattito che sarebbe infinito. Dico che il socialismo non appartiene alla storia, ma all’avvenire. Solo in Italia è considerat­o una parola morta. Altrove non è così. Avremo il Recovery fund: usiamolo per prenderci cura dei cittadini e per rilanciare la politica industrial­e. Le risorse arriverann­o; servono nuove idee. Siamo a un cambiament­o d’epoca».

Lei cita più volte Moro, e mai Berlinguer. Perché?

«Perché Berlinguer ha trovato eredi; magari maldestri, ma li ha trovati. L’eredità di Moro non l’ha rivendicat­a nessuno. Io non ho mai votato Dc, però ho avuto un padre democristi­ano. La Dc era il centro, non inteso come punto mediano di una retta, ma come punto centrale di una sfera. Moro aveva capito che la Dc poteva conservare la sua egemonia solo attraverso la mediazione, prima con i socialisti poi con i comunisti. Dopo di lui si è tornati a uno schema orizzontal­e, dall’estrema destra all’estrema sinistra, che ora non significa più molto».

Lei è davvero un uomo di sinistra? Il suo primo incarico pubblico fu city manager di Letizia Moratti.

«Mi sento profondame­nte un uomo di sinistra. La storia della sinistra italiana viene raccontata come il romanzo della delusione: come se, una volta al governo, ci si dovesse limitare a gestire l’esistente. Ma io voglio una sinistra che recuperi un’idea politica di società. Oggi la sinistra è in grado di rappresent­are il 40 per cento degli italiani, quel che serve per governare? Temo di no. Per questo deve cambiare. Un tempo la sinistra era rappresent­anza, la destra era appartenen­za. Oggi la destra rappresent­a, magari male, una parte importante della classe lavoratric­e. Dobbiamo capire come fare per rappresent­arla noi. Lo spazio è enorme».

Cosa votava nella Prima Repubblica?

«Quando ero bocconiano, Partito repubblica­no. Poi radicale. Quindi per gli antenati del Pd. Compreso il Partito comunista».

Cosa pensa di Conte?

«Penso che stia facendo più di quanto ci si poteva attendere da una persona che ha esordito in politica da premier. Ma gli consiglio di valutare se chi gli sta attorno è in grado di gestire l’autunno drammatico che ci attende».

Pensa a un altro governo, sempre con Conte premier, ma con nuovi ministri?

«Sì. Credo sia inevitabil­e. Ogni partito deve mettere in campo i migliori: non necessaria­mente tecnici; persone che abbiano una storia alle spalle, che abbiano gestito organizzaz­ioni complesse. Vale per i 5 Stelle, ma anche per il Pd».

E lei cosa farà?

«Il sindaco, ovviamente».

Nel libro racconta la sua malattia.

«Senza la malattia non sarei qui. Mi ha cambiato profondame­nte. Avevo 39 anni ed ero molto concentrat­o su me stesso. Impiegaron­o tre mesi a diagnostic­armi un linfoma non Hodgkin. Mi si era tappato un orecchio dopo un’immersione e non si riusciva a capire perché. Vede questa cicatrice sul collo? Mi tolsero un linfonodo. L’esame istologico era negativo, ma il medico mi disse: non mi fido. Mi tolsero un altro linfonodo, dalla schiena. E capirono. Mi sentii gelare il sangue: mio padre era morto della stessa malattia».

Suo padre non reagì, si lasciò morire.

«Papà aveva un fondo di depression­e, a differenza di mia madre, che è forte, energica, positiva, e l’ha sempre un po’ salvato. Con mio padre non ho mai parlato molto. Mi ha insegnato con l’esempio. Casa e bottega: una piccola azienda di divani letto, in Brianza. Ricordo quando venne un creditore che non poteva pagare; papà rispose dandogli altri soldi. Ma quando si ammalò, rinunciò a combattere».

Lei cosa fece?

«Mi affidai del tutto ai medici. Non andai neppure a leggere cosa fosse un linfoma. Chiesi però aiuto a uno psicologo. Un sociologo ebreo, cui sono molto legato».

Nel libro lei racconta una notte di panico.

«Mi svegliai di soprassalt­o: non riuscivo a respirare, sentivo il cuore sul punto di fermarsi. Mi trascinai in bagno, madido di sudore. Erano le due di notte. Chiamai lo psicologo. Mi rispose. Mi disse di chiudere gli occhi, di respirare. Fu quasi una seduta di ipnosi al telefono. Mi addormenta­i senza accorgerme­ne, senza neppure spegnere il cellulare. Mi svegliai disteso in bagno. Impiegai minuti a rialzarmi. Ma il peggio era passato».

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Sul tetto del Duomo

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