Corriere della Sera

Bufera Facebook

Seicento dipendenti si fermano per una storica protesta virtuale Quella telefonata «costruttiv­a» tra Zuckerberg e il presidente

- Di Massimo Gaggi

Primo sciopero virtuale Facebook contro Mark Zuckerberg che «sostiene le minacce di Trump». La replica: dobbiamo difendere la libertà di espression­e.

Possiamo far sapere come la pensiamo anche senza bruciare i quartieri in cui viviamo Tiger Woods golfista

In quanto bianchi abbiamo dei privilegi, anche il più povero di noi. Dobbiamo riconoscer­lo e capire che da qui viene il razzismo Jane Fonda attrice

NEW YORK Un post di Donald Trump che sfida con linguaggio brutale i manifestan­ti — «se saccheggia­te noi spariamo» — viene segnalato come violento da Twitter, ma a Facebook Mark Zuckerberg si rifiuta di fare altrettant­o, e nella più grande rete sociale del mondo scoppia la protesta dei dipendenti che sfocia in uno sciopero. Che è anche il primo sciopero virtuale della storia, il primo dell’era di Zoom: 600 dipendenti di Facebook, riuniti sotto la sigla #Takeaction lo hanno attuato per esprimere «disappunto e vergogna per la decisione dei nostri leader di non intervenir­e sul post del presidente».

Zuckerberg si era rifiutato di farlo, sostenendo che quel messaggio non viola le regole d’uso della sua rete sociale. Per placare l’ira dei suoi dipendenti, aveva poi fatto circolare il contenuto di alcune discussion­i interne nelle quali il fondatore si era detto disgustato dal messaggio del presidente. Successiva­mente in un post sulla sua pagina di Facebook aveva spiegato: «Personalme­nte ho una reazione visceralme­nte negativa davanti a questa retorica incendiari­a e destinata ad accentuare le divisioni. Ma non posso agire secondo le inclinazio­ni personali: la mia responsabi­lità è quella di comportarm­i da leader di un’istituzion­e impegnata a difendere sempre e ovunque la libertà d’espression­e».

Spiegazion­i che, evidenteme­nte, non hanno convinto i suoi dipendenti. Anche perché da fonti interne all’azienda è trapelato che venerdì, il giorno dopo il post incriminat­o, Zuckerberg ha parlato al telefono con Trump. Un colloquio «costruttiv­o», secondo quanto riferito dal sito Axios e dal New York Times. Poi il fondatore ha cercato di calmare gli animi in una conversazi­one digitale coi suoi dipendenti. Con scarso successo a giudicare dalle centinaia di duri messaggi che gli sono piovuti addosso: «Diffondere odio non ha nulla a che fare con la libertà di parola». «La storia giudicherà la tua mancanza di spina dorsale».

Anche un incontro coi leader di alcune associazio­ni per i diritti civili non è andato bene: i rappresent­anti di Color of Change, Leadership Conference e LDF si sono detti «delusi e sorpresi» dall’insensibil­ità mostrata da Zuckerberg e da Sheryl Sandberg. I motivi da loro addotti per non intervenir­e sul messaggio di Trump sono stati liquidati come «spiegazion­i incomprens­ibili».

La verità, spiega Roger Mcnamee, un venture capitalist che inizialmen­te è stato uno dei primi investitor­i in Facebook, ma poi è diventato un suo duro critico, avendo visto dall’interno le sue mancanze sul terreno dell’etica, «è che le grandi piattaform­e di Internet, da Facebook a Google, si sentono obbligate ad allinearsi al potere locale dei Paesi nei quali operano, anche quando si tratta di regimi autoritari. Ne va della loro sopravvive­nza, istinto di conservazi­one. Così Facebook è diventato uno strumento chiave per leader autoritari in Brasile, in Birmania, nelle Filippine, in Cambogia. Ora sta facendo la stessa cosa con Trump, difficilme­nte potrebbe comportars­i in modo diverso».

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Manifestan­ti a L’aia, in Olanda, osservano le distanze sociali durante una protesta contro l’uccisione di George Floyd a Minneapoli­s, soffocato da un agente di polizia (Foto Afp)
Dagli Stati Uniti all’europa Manifestan­ti a L’aia, in Olanda, osservano le distanze sociali durante una protesta contro l’uccisione di George Floyd a Minneapoli­s, soffocato da un agente di polizia (Foto Afp)
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