Zuckerberg, libertà digitale e crisi dei social
Esattamente dieci anni fa, il 10 giugno del 2010, Mark Zuckerberg si trovò sul palco alle prese con due giornalisti come Kara Swisher, oggi opinionista di punta del New York Times, e Walt Mossberg, fondatore del sito di informazione Recode e storica firma tecnologica del Wall Street Journal: ne uscì così a pezzi da non accettare mai più incontri pubblici se non con firme considerate «amiche». Il giovane e potente Zuckerberg, intriso di retorica buonista sulle capacità risanatrici del digitale, sudò così tanto da vedersi costretto a togliere il suo giaccone, dentro il quale Kara Swisher trovò e mostrò il simbolo in stile massonico di un gruppo di illuminati di cui Zuckerberg si sentiva parte. Invece di cercare le risposte, il fondatore di Facebook fece cambiare le domande. Ed è interessante scoprire come molti dei dubbi a cui la coppia Swisher-mossberg cercava risposta sono gli stessi emersi dalla recente protesta dei suoi dipendenti che considerano Zuckerberg troppo accondiscendente con Trump e troppo evasivo sulle questioni che il gruppo pone come monopolista dei social: Facebook deve avere una responsabilità per i contenuti oppure tutto può essere giustificato dalla faccia retorica della democrazia della Rete e della libertà di opinione? Lo stesso Zuckerberg parlando di fronte ai suoi dipendenti giovedì ha raccontato di aver ricevuto una telefonata dallo stesso Trump al quale avrebbe detto di «non condividere i suoi post» anche se, formalmente, «rispettano la policy di Facebook». Non è solo una questione di politica interna. Ciò che più dovrebbe impensierire Zuckerberg è che quel sentimento manifestato dai suoi dipendenti è ormai globale tanto da coincidere anche con quello che pensano gli utenti, inclusi gli italiani che sono tra i più assidui fruitori della piattaforma social. Secondo i più recenti dati dell’osservatorio Scienza Tecnologia e Società, se è ormai dominante l’idea che il potere delle società cosiddette GAFA (Google, Amazon, Facebook ed Apple) sia eccessivo (lo pensa ormai l’89% degli italiani, in ulteriore aumento di 5 punti percentuali sulla precedente rilevazione), il solco si fa più profondo quando si passa a parlare dei singoli brand. La fiducia degli italiani resta alta per Google (73%), Amazon (69,6%) Apple (già più in basso, 57%) ma scende al 45,6 % per Facebook. Più di un italiano su due non si fida di Zuckerberg. Le ragioni potrebbero
essere molteplici: il social network, in definitiva, è una società giovane, nata con il nuovo millennio. Guidata da un millennial. Ingenua, per certi versi. Pericolosa per altri. Spesso percepita come terreno fertile per la propaganda e la manipolazione di contenuti politici. Il sentimento nella stessa Silicon Valley non è distante da quello dei cittadiniutenti: non è un caso che Google ed Apple si siano unite in piena fase di emergenza per il coronavirus per facilitare la diffusione di App di tracciamento che tutelino, per quanto possibile, la privacy. La sensazione nella Silicon Valley è che Facebook possa inquinare l’ecosistema con eccessive accelerazioni in avanti nell’utilizzo dei dati degli utenti. La privacy è un tema troppo analogico per poter essere considerato del tutto sicuro nell’era digitale. La consapevolezza di questo passaggio ontologico è fondamentale per comprenderne l’evoluzione. Ma la sua negazione rischia di alimentare una diffusa resistenza alla condivisione dei dati, oggi nuova innegabile fonte di valore come si è visto anche nella gestione dell’emergenza mondiale del virus.