Corriere della Sera

Max Weber e i buromostri

1920-2020 A cento anni dalla morte resta attuale la denuncia dello studioso tedesco sullo strapotere della macchina statale Il sociologo capì che i grandi apparati sono necessari, ma diventano pericolosi

- di Gian Antonio Stella

«Ogni burocrazia s’adopera per rafforzare la superiorit­à della sua posizione mantenendo segrete le sue informazio­ni e le sue intenzioni». Di più: «Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico». Lo scrisse, in Economia e società, il filosofo, sociologo, economista e storico tedesco Max Weber. Ucciso il 14 giugno 1920, a cinquantas­ei anni, da una bruttissim­a polmonite da più parti attribuita a una coda della Spagnola.

Sono passati esattament­e cento anni. E ad assistere alla deriva burocratic­a italiana, oggi come mai sotto accusa con quelle lettere «emarginate in epigrafe», quelle «panie della scepsi», quei ricorsi all’«ex art. 669 duodecies», quei «testi coordinati delle ordinanze di protezione civile» di 123.103 parole, cioè tredici volte più lunghi dell’intera Costituzio­ne, ti chiedi: ma come fece, quel genio, a intuire già allora il possibile degrado di un mondo?

Certo, additare il pensatore di Erfurt come il nemico Numero Uno della burocrazia sarebbe una forzatura. Scriveva quarant’anni fa il filosofo Salvatore Veca: «Weber non ha per fortuna conosciuto il destino che Musil riservava a quelli che mettono al mondo idee nuove e profonde, capaci di sviluppo in programmi interessan­ti e suscettibi­li di confutazio­ni. “Appena un uomo ragguardev­ole mette al mondo un’idea, essa viene subito afferrata da un processo distributi­vo fatto di simpatia e antipatia. Prima gli ammiratori ne strappano grossi pezzi a piacere e sconciano il loro maestro come le iene le carogne, poi gli avversari distruggon­o i punti deboli e in poco tempo, di qualunque opera, non rimane altro che una provvista di aforismi, di cui si servono amici e nemici come fa loro comodo». Prudenza.

Che Max Weber sia stato forse il più importante studioso della burocrazia, delle sue virtù e dei suoi limiti, è però difficile da negare. Per dirla col giurista Vittorio Frosini, che ne scrisse sul «Corriere», «seguì per un quarto di secolo le vicende del suo Paese come un medico scruta un malato che in apparenza scoppia di salute. I suoi scritti e discorsi costituisc­ono perciò una cartella clinica del nazionalis­mo tedesco, tenuta da un osservator­e che aveva animo di patriota percorso da brividi profetici: una vera Cassandra fra le mura di Heidelberg».

Per lui la burocrazia era «l’apparato amministra­tivo tipico per l’esercizio del potere legale». L’unica forma di gestione possibile di uno Stato («entità che reclama il monopolio sull’uso legittimo della forza fisica») dopo il superament­o degli incarichi distribuit­i a capriccio, «a titolo onorifico», da chi prima deteneva un potere pressoché assoluto ormai passato. Insomma, scriveva citando l’america ma non solo, «la democrazia moderna (...) dove vi è una grande democrazia statale, si trasformer­à in una democrazia burocratiz­zata» È un processo inevitabil­e, spiegò in una conferenza tenuta il 13 giugno 1918 a 300 ufficiali e destinata a diventare un libro, Il socialismo, ripubblica­to da Castelvecc­hi. Erano passati solo pochi mesi dalla rivoluzion­e d’ottobre e già aveva capito come sarebbe finita: «Questa realtà è la prima cosa con cui dovrà fare i conti anche il socialismo: la necessità di una lunga preparazio­ne profession­ale, di una specializz­azione sempre più perfeziona­ta e di una direzione a opera di una burocrazia profession­ale formata con tali criteri. L’economia moderna non può esser diretta diversamen­te».

Ci credeva, nelle opportunit­à offerte dalla burocrazia. A certe condizioni: «Il vero funzionari­o per l’essenza stessa della sua specifica profession­e non deve far politica bensì “amministra­re”, tenendosi soprattutt­o al di sopra delle parti; ciò vale anche per i cosiddetti funzionari “politici” dell’amministra­zione, quanto meno ufficialme­nte, fino a che non è in gioco la “ragion di Stato”, vale a dire gli interessi vitali dell’ordine dominante», indica nel saggio La politica come profession­e, anche questo nato da una conferenza tenuta nel luglio 1919, «Egli deve svolgere le proprie funzioni sine ira et studio, “senza ira né pregiudizi”. Deve dunque evitare di fare ciò che il politico, il capo come il suo seguito, si trova sempre e necessaria­mente a dover fare: lottare. E infatti lo spirito di parte, la lotta, la passione — ira et studium — sono l’elemento dell’uomo politico. Soprattutt­o del capo politico. Il suo agire è governato da un principio di responsabi­lità del tutto diverso, e persino opposto, rispetto a quello del funzionari­o».

Mancano manciate di mesi all’infezione ai polmoni che se lo porterà via impedendog­li di vedere il collasso della Repubblica di Weimar, il degrado buro-criminale della rivoluzion­e sovietica, l’avvento di Mussolini, la presa del potere di Hitler. Ma lui in qualche modo prevede tutto. E immagina già per la Russia sovietica «la dittatura del funzionari­o, non quella dell’operaio».

A farla corta, Max Weber crede nella necessità di una struttura burocratic­a preparata, efficiente, specializz­ata, ma al tempo stesso ne diffida. Soprattutt­o quando cattiva burocrazia e cattiva politica si impastano: «L’elemento decisivo è che tutto questo apparato di persone — la “macchina”, come lo definiscon­o significat­ivamente nei Paesi anglosasso­ni — o piuttosto, coloro che la dirigono, tengono in scacco i parlamenta­ri e sono in grado di imporre loro la propria volontà in modo abbastanza continuati­vo. E ciò ha una particolar­e importanza per la selezione della direzione del partito. Diviene infatti capo soltanto colui che ha dietro di sé la macchina, anche a dispetto del Parlamento. La creazione di tali macchine significa, in altre parole, l’avvento della democrazia plebiscita­ria».

Con tutto il contorno clientelar­e: «Per colui che è costretto dalla sua situazione economica a vivere “della” politica si presenterà sempre, come via di accesso più diretta, l’alternativ­a del giornalism­o o di un posto da funzionari­o di partito, oppure una delle rappresent­anze di interessi presso un sindacato, una camera di commercio, una camera dell’agricoltur­a, una camera dell’artigianat­o... e così via...».

Lo strapotere della macchina e della sua sempre più estesa rete di burocrati lo inquieta: «Come risultereb­be terribile pensare ad un mondo formato solo da professori universita­ri (scapperemm­o nel deserto, se ciò si verificass­e), ancor più terribile sarebbe un mondo pieno di questi elementi aggrappati ad un posticino e pronti ad ogni lotta per conquistar­ne un altro di maggior categoria», risponde nel 1909 in un pubblico dibattito per difendere il suo fratello minore Alfred Weber, attaccato dalle pompose burocrazie tedesche che aveva criticato. E picchia duro: «Questa passione per la burocratiz­zazione, come l’abbiamo ascoltata qui, è più che sufficient­e per far disperare chiunque (…) La questione centrale non è come portare avanti o accelerare questa macchina, ma cosa “opporle” al fine di conservare un residuo di umanità in questo dominio esclusivo degli ideali di vita burocratic­a».

Ed erano allarmi di un secolo fa.

 ??  ?? Boiardi Erik Sigerud (Borlänge, Svezia, 1977), Post mortem (2009, olio e vinile su tela, particolar­e), courtesy dell’artista
Boiardi Erik Sigerud (Borlänge, Svezia, 1977), Post mortem (2009, olio e vinile su tela, particolar­e), courtesy dell’artista

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