Corriere della Sera

I cento giorni che ci hanno cambiato

Quanto siamo cambiati da quando si è fermato tutto Siamo diversi e divisi. Ed è tempo di provare a riunirci

- Di Antonio Polito

Cento giorni del Covid hanno cambiato gli italiani. Ma non tutti. Ci hanno reso diversi. Ma più diseguali. Migliori e peggiori, allo stesso tempo. Quasi tre Italie in una.

N diEL LUNGO LOCKDOWN cominciato cento giorni fa ci sono stati quelli «che hanno continuato a vivere nella povertà, che hanno tenuto i bambini in 40 metri quadrati, che erano abituati ad andare a fare la spesa dove le cose costavano meno», oggetto della commozione in tv del virologo dal volto umano, Giuseppe Ippolito dello Spallanzan­i. Insieme a loro — aggiungiam­o noi — quelli che hanno dovuto uscire di casa ogni mattina perché fanno gli infermieri, i medici, gli addetti alle pulizie, i poliziotti, i rider, i postini, i benzinai, gli spazzini. Gente che ha tenuto in piedi l’italia, e chissà quanto ci metteremo a dimenticar­ci il debito di riconoscen­za che abbiamo nei loro confronti.

Poi c’è stata l’italia di mezzo: quelli che hanno potuto restare a casa ma hanno perso il reddito, la gente che ha un negozio, un ristorante, un bar, un albergo, uno studio di avvocato o un salone di bellezza, o che non ce l’hanno ma ci lavorano. Mesi di risparmi bruciati e tanta paura per ciò che verrà. Per loro il peggio comincia ora.

E infine ci sono quelli che se la sono cavata: i «colletti bianchi» che hanno conservato posto e stipendio, hanno il Wi-fi e Netflix, fanno lo smart working e il bike sharing. A casa hanno riscoperto gli affetti, la lentezza, la gastronomi­a, i figli, l’amore coniugale. E quasi quasi ci sarebbero restati ancora un po’. Gli inglesi dil’università,

in mezzo alla tragedia dell’ultimo conflitto, coloro che avevano avuto una «good war». Stavolta, per fortuna, non sono pochi.

Queste tre Italie, rese anche più diverse di prima dalla pandemia, vanno ora riunificat­e. Altrimenti rabbia e risentimen­to le metteranno l’una contro l’altra, e tutte e tre contro il Palazzo. Non sarà un pranzo di gala, né un buffet a Villa Pamphilj. Bisognerà forse partire da ciò che ci ha invece unito.

Siamo tutti più spaventati, innanzitut­to

Abbiamo visto il lato oscuro della Natura, la morte in faccia, un virus senza cure e vaccini. La nostra presunzion­e di invulnerab­ilità, l’idea che ormai si possa morire solo per un fallimento della medicina, ne è uscita a pezzi. Ora sappiamo, e vogliamo essere curati meglio, chiediamo ospedali e ambulatori più efficienti, con più dottori e meno politica. Diteci quanto costa e non badate a spese.

Siamo più disciplina­ti

Sappiamo stare in fila. Mai visto niente del genere. Non è chiaro perché servizi essenziali come banche, poste e uffici pubblici funzionino ancora con il razionamen­to, ma lo accettiamo e stiamo in fila. È un patrimonio su cui costruire. Il rispetto delle regole è stato sorprenden­te per un popolo di solito così individual­ista. Vuol dire che c’è un capitale di responsabi­lità, di senso del dovere, consapevol­ezza che la libertà di ciascuno deve coesistere con quella di tutti gli altri.

Siamo più digitali

Non che abbiamo imparato chissà che, né che la banda sia diventata così larga. Ma abbiamo capito qualcosa da cui difficilme­nte torneremo indietro: si possono fare tante cose, perfino una visita medica, senza spostarsi fisicament­e. Senza prendere la macchina, salire su

un aereo, viaggiare per ore, aspettare un bus, arrivare in ritardo. È una cosa buona. Ci saranno grandi risparmi per le aziende, meno pressione sull’ambiente e più flessibili­tà per tutti, per conciliare tempo di vita e tempo di lavoro. Siano perfino diventati più puntuali: le conference call, chissà perché, cominciano precise, senza il quarto d’ora accademico. Ma è anche una cosa pericolosa. Può trasformar­si in pigrizia, assenteism­o, illusione di una vita in infradito. Soprattutt­o non può sostituire il lavoro in presenza lì dove è indispensa­bile: la scuola, i servizi agli anziani, dai quali non si può pretendere un collegamen­to su Zoom.

Siamo più ignoranti

Otto milioni di italiani hanno perso un anno di scuola o giù di lì, per quanto encomiabil­i siano stati gli sforzi di didattica a distanza. C’è chi ha perso di meno e chi di più, perché la «DAD» ha funzionato solo nelle famiglie con un buon livello di istruzione, molti device e un ottimo collegamen­to in rete. Dunque ha eroso il sistema educativo nazionale e la sua funzione di coesione sociale. Guai a perdere pure l’appuntamen­to di settembre.

Siamo più patriottic­i

Le bandiere italiane sono comparse numerose ai balconi delle case, manco fossimo ai Monstingue­vano, diali: un modo di tenersi su, «stringiamo­ci a coorte». Grandi folle si sono radunate per guardare le Frecce Tricolori. Ampi consensi hanno sostenuto la difficile azione del governo. Ma attenzione: gli italiani che hanno investito nel tricolore saranno anche i primi a sentirsene traditi, se ne avranno motivo. Non ce lo possiamo permettere.

(Ps: cento giorni dopo, questo è anche il mio ultimo «Taccuino dal virus». È ora di raccontare il dopo.)

Tre Italie

Ci sono quelli che erano già in difficoltà, chi ha perso e perderà e chi se l’è cavata

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Un momento di sconforto nel corridoio del reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Cremona: la foto è del 15 marzo
La fatica e il coraggio degli infermieri Un momento di sconforto nel corridoio del reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Cremona: la foto è del 15 marzo
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Prato, 21 marzo: si aspetta in coda il proprio turno per il supermerca­to
La pazienza Prato, 21 marzo: si aspetta in coda il proprio turno per il supermerca­to
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Convogli militari trasportan­o le salme che Bergamo non riesce più a cremare
Il lutto Convogli militari trasportan­o le salme che Bergamo non riesce più a cremare
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