«Zorro» senza sconti: sulla scena i punti vincenti sono le sconfitte
Andrea Zorzi: «Un romanzo non può essere autocelebrativo»
«Racconto l’idea di un’umana imperfezione». Sentirselo dire da Andrea «Zorro» Zorzi, uno dei pallavolisti della «generazione di fenomeni» che ha reso grande l’italia del volley tra la fine degli anni 80 e per tutti gli anni 90, fa un po’ specie: imperfetti loro che hanno spopolato, anche se a onor del vero all’appello è mancato il titolo olimpico? Sembra impossibile. Ma se il 15 luglio al Casino della Regina del Bosco di Capodimonte andrete a vedere «La leggenda del pallavolista volante», pièce della quale «Zorro» è co-autore assieme a Nicola Zavagli, scoprirete che gli snodi narrativi importanti sono le due sconfitte ai Giochi, quella di Barcellona 1992 e quella di Atlanta 1996 (per quanto, almeno questa, mitigata da una medaglia d’argento).
«Un romanzo – spiega Zorzi - non può essere autocelebrativo. Semmai, deve proporre difficoltà. Certo, parliamo pure delle vittorie, ma i due momenti amari sono la parte cruciale dell’opera: la doppia delusione rappresenta, paradossalmente, l’anima profonda del nostro gruppo.
Andrea Zorzi e Beatrice Visibelli in scena
Chi ci parla di quei giorni non ci dice mai “avete perso”. Al contrario, ci fa capire il dispiacere provato: è raro che ci sia la condivisione delle sconfitte, ma in questo caso accade. Mi rifaccio così a una citazione: “Quella donna per essere perfetta ha dovuto avere qualche difetto”».
«La leggenda del pallavolista volante», che ha avuto oltre 250 repliche, nasce nel 2012 un po’ per caso, «dopo che al mare ho conosciuto Nicola e Beatrice Visibelli, la voce narrante che, mentre io rappresento me stesso nelle differenti età, impersona vari personaggi, da mio padre ai miei allenatori». Lo sport incontra il teatro e si fa metafora della vita: in scena salgono anche umanità, errori, voglia di fare, competizione, contrasti duri. Non è insomma una cartolina del Mulino Bianco. Alcuni ex compagni di squadra di Zorzi si sono commossi fino alle lacrime perché hanno rivisto pure loro stessi.
«Non ci sono licenze teatrali – riprende «Zorro» -: si comincia con me bambino, il “pingolone” che non si piaceva perché tanto alto, con le vicende di papà emigrato in Australia e con il lavoro di mia madre in un manicomio. Quindi ecco l’assenza totale di fidanzate e altre debolezze di un ragazzone che è poi diventato un buon giocatore. Vedermi sul palco a raccontare questa fragilità, scherzando perfino su di me, è qualcosa di emozionante».
Zorzi sostiene di essere inciampato nel volley, «così come sono poi inciampato nel giornalismo e nel teatro». A quest’ultimo l’ha avviato la moglie Gulia Staccioli con il progetto Kataklò, ma la pallavolo ha aiutato Andrea con due qualità decisive: il controllo del corpo e la disciplina. Due mondi, il teatro e lo sport, che finalmente sono messi alla pari, pur nelle differenze: «Nello sport devi escludere tutto ciò che non riguarda l’azione, mentre a teatro devi aprirti sul resto».
Però le due anime possono coesistere, dare nuovi frutti («Stiamo lavorando, nel trentennale del primo oro iridato, al “processo” di quella vittoria») e far approdare a sensazioni sorprendenti: «Sul palcoscenico mi ritrovo un po’ in partita. Ma a teatro un singolo sospiro lo senti di più dell’urlo di un tifoso».
d Sotto i riflettori mi ritrovo in partita. Ma a teatro un singolo sospiro lo senti di più dell’urlo di un tifoso