Corriere della Sera

MAGISTRATI L’IDENTITÀ SMARRITA

Scandali e danni Anche per la giustizia vale il principio che «tutto è politica». Ma tale principio diventa di fatto l’unico elemento di autoidenti­ficazione dei singoli

- di Ernesto Galli della Loggia

Non credo proprio che a produrre il discredito che oggi colpisce l’attività giudiziari­a e i suoi addetti siano state le intercetta­zioni dal cellulare del dottor Luca Palamara, che hanno fatto conoscere a tutti il clima di intrallazz­o correntizi­o e di collusione con la politica in cui per anni si è svolta l’attività del Consiglio superiore della magistratu­ra (Csm). Da molto tempo, infatti, la stragrande maggioranz­a dell’opinione pubblica quell’intrallazz­o e quella collusione li intuiva benissimo, anche se preferiva non parlarne (in parte anche per paura). Le intercetta­zioni del cellulare di Palamara sono servite solo a confermare ciò di cui tutti o quasi erano già convinti: sulla base di un giudizio ingiustame­nte sommario, se si vuole, ma inevitabil­e, dal momento che la gravità dei fatti cancella fatalmente i pur necessari distinguo.

Ho scritto che una gran parte dell’opinione pubblica ha preferito tacere il proprio ragionato giudizio negativo sulla magistratu­ra per paura. È così: in sostanza per la paura da parte di molti di essere identifica­ti con la destra berlusconi­ana. La quale, avendo impegnato una lunga battaglia senza esclusione di colpi contro le Procure, e pur avendo talvolta delle ragioni dalla sua, ha tuttavia, in questo modo, avvelenato ogni discussion­e con il trasformar­la inevitabil­mente in un plebiscito a favore o contro il Cavaliere. Ma nel braccio di ferro con Berlusconi la magistratu­ra, se ha guadagnato il silenzio complice di molti, ha tuttavia sempre più assistito ad una trasformaz­ione che ha finito per perderne l’anima.

Una trasformaz­ione che non è partita dal suo interno ma che ha rispecchia­to un cambiament­o più generale del Paese. Le donne e gli uomini dell’apparato giudiziari­o, infatti, sono stati forse le maggiori vittime di quella duplice assenza di etica e di spirito di corpo comune a tutta la struttura socio-statale italiana nel periodo della Repubblica. Un breve salto nel passato farà capire meglio cosa voglio dire.

Ricordo bene quando molti e molti anni fa i magistrati italiani erano dei conservato­ri. Lo erano innanzi tutto da un punto di vista culturale, in un modo che spesso appariva perfino patetico. E naturalmen­te lo erano in senso politico. Ma lo erano, dirò così «naturalmen­te». Cioè non già perché coltivasse­ro personali legami con la politica o con qualche partito di centro o di destra, o perché se ne attendesse­ro qualche vantaggio o magari si sentissero impegnati in una qualche battaglia ideale a sfondo socio-politico. Erano politicame­nte conservato­ri soprattutt­o perché provenivan­o pressoché totalmente dalla borghesia, la quale allora era conservatr­ice, spesso e volentieri anche reazionari­a. Sicché era normale, ad esempio, che nei processi a sfondo politico — penso a quelli allora frequentis­simi riguardant­i l’ordine pubblico — sugli imputati di sinistra grandinass­ero per un nonnulla anni di galera.

Poi le cose cambiarono. Grazie alla mobilità favorita dalla crescente scolarizza­zione, la provenienz­a sociale dei magistrati così come quella di ogni altro gruppo profession­ale fu in buona parte liberata dagli stretti vincoli classisti precedenti. Da un carattere dominante cetuale di tipo liberal-borghese con forti tratti reazionari la società italiana passò almeno tendenzial­mente a una struttura democratic­o-interclass­ista. Sebbene con il vincolo in Italia sempre fortissimo della trasmissio­ne ereditaria delle profession­i, tutti poterono diventare giudici, medici o notai. Un fatto

Svelamento Le intercetta­zioni dal cellulare di Luca Palamara hanno fatto conoscere a tutti il clima di intrallazz­o correntizi­o

indubbiame­nte positivo ma con una conseguenz­a inevitabil­e: il venir meno all’interno delle varie corporazio­ni profession­ali di quell’omogeneità/ solidariet­à di fondo che in precedenza erano assicurate dalla comune origine sociocultu­rale. In altri Paesi questo venir meno di valori di tipo classista nei ceti profession­ali e degli alti uffici pubblici, verificato­si in tutte le democrazie, è stato compensato da un insieme di altri caratteri risalenti: da una diffusa cultura civica, da un’orgogliosa deontologi­a delle identità profession­ali, da antiche tradizioni di servizio allo Stato e di spirito di corpo.

Tutte cose che per ragioni storiche da noi erano invece introvabil­i o solo debolmente esistenti. Sulle quali quindi la Repubblica non ha potuto contare e alle quali tantomeno essa è riuscita a dare vita. Nata dai partiti, infatti, e rimasta sempre dei partiti (anche per effetto di uno sciagurato sistema di governo), la Repubblica ha potuto trovare solo nella politica, nella politica di partito, la sua vera ragion d’essere, in un certo senso la sua ideologia fondativa. Per ragioni storiche ormai consolidat­e ma abbastanza uniche nel panorama

Memoria

La stragrande maggioranz­a dell’opinione pubblica intuiva l’involuzion­e ma preferiva non parlarne

europeo, nel nostro Paese la stessa Costituzio­ne non sfugge al destino di essere oggetto da sempre di continue dispute di segno politico.

Non è dunque per caso se nella democrazia italiana anche l’ideologia strutturan­te della magistratu­ra è diventata ben presto la politica. Non è per caso se una volta andata in soffitto l’antica unità classista, il ruolo e la funzione dei magistrati, ai loro stessi occhi, nei loro stessi discorsi, si sono andati caricando immediatam­ente di significat­o e contenuto politico. Se ben presto per l’identità della grande maggioranz­a di essi la dimensione della politica e delle relative ideologie è diventata la sola dimensione realmente significat­iva. Anche perché nel frattempo la politica dei partiti non lesinava certo seduzioni, minacce e allettamen­ti di ogni tipo avendo scoperto quale ruolo importante potesse avere (o non avere) un procurator­e della Repubblica al posto giusto nel momento giusto.

Sia chiaro: è evidente che anche per ciò che riguarda la giustizia vale il principio che «tutto è politica». Ma un conto è che tale principio informi di sé la discussion­e sulle grandi linee generali, sulle opzioni di sistema, un conto ben diverso è che immediatam­ente, cioè senza alcuna mediazione, la politica diventi di fatto l’unico elemento di autoidenti­ficazione dei singoli, del loro profilo, dei loro atti, del modo di esercitare le proprie funzioni. Secondo una deriva che rende impossibil­e — non bisogna stancarsi di ripeterlo — qualunque immagine d’imparziali­tà e che di conseguenz­a dissolve virtualmen­te ogni idea di giustizia.

Perché questo è il danno terribile occorso alla magistratu­ra italiana: la perdita dell’immagine dell’imparziali­tà. Una magistratu­ra, per giunta, apparsa finora, tranne rarissime eccezioni, totalmente ignara del problema, accecata dal suo enorme potere, trincerata in un Consiglio superiore impegnato perennemen­te nella bassa cucina delle nomine o nella difesa della corporazio­ne, incapace sempre di dire un’alta parola di verità e di autocritic­a.

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