I cinquant’anni del Pride (che per la prima volta è senza sfilate)
Mezzo secolo in cui tutto è cambiato. Cinquant’anni fa lesbiche, gay e transgender scesero in strada a New York e Los Angeles nei primi Pride della storia. Si chiamavano «Christopher Street Gay Liberation Day March» e commemoravano i moti di Stonewall: le rivolte scoppiate l’anno precedente in Christopher Street, a New York, quando la polizia provò a chiudere lo Stonewall Inn, un pub gestito dalla mafia e frequentato da persone lgbt. Nella notte tra il 27 e 28 giugno 1969, i clienti e le clienti invece di subire come era sempre avvenuto alle perquisizioni che dovevano accertare se avessero almeno tre indumenti «corrispondenti» al proprio sesso (come prevedeva la legge) si erano rivoltati in proteste durate tre giorni, rendendo visibile il movimento lgbt americano. Un anno dopo tornavano a sfilare per dire che non volevano ripiombare nell’invisibilità. Da allora, ogni anno, il rito si ripete e si è allargato dall’america, all’europa, all’africa, all’asia e all’oceania (anche se in Italia bisognerà aspettare il 1979 per un corteo: a Pisa in risposta all’omicidio di un uomo gay). Nel 2020 per la prima volta, in gran parte del mondo la sfilata del Pride non si è potuta tenere per motivi che non hanno niente a che fare con le discriminazioni nei confronti delle persone lgbt: la pandemia di Covid-19. È stata sostituita da eventi online. Cinquanta anni fa i rapporti gay erano vietati in gran parte degli Usa, le trans «condannate» a prostituirsi o a reprimersi. Il Pride sfidò tutto questo. Ha vinto: ora in Nord America, in quasi tutta Europa (non in Italia che ha le unioni civili) e in molte altre democrazie i gay si possono sposare. Però nell’america di Trump i diritti lgbt sono tornati sotto attacco. Da noi la legge contro omo e transfobia, che sarà depositata martedì alla Camera, è lontana dall’esser approvata. Le lotte del Pride non sono ancora finite.