Corriere della Sera

L’AUDACIA CHE MANCA A PD E M5S

Ci sarebbe il tempo per trovare un’intesa ed evitare una sconfitta alle regionali ma non si cerca neppure di arrivare a un compromess­o

- di Paolo Mieli

Convincent­i i dieci punti a favore del Mes che Nicola Zingaretti ha enunciato lunedì sulle colonne di questo giornale. Un manifesto assai efficace, ben scritto, ottimament­e argomentat­o. Condivisib­ile, a parer nostro, dalla prima all’ultima parola. Spiace che i partner di governo abbiano lasciato cadere quel testo senza degnarlo nemmeno di qualche consideraz­ione. Una scortesia non nuova nei confronti del segretario Pd, trattato con sufficienz­a dal M5S anche quando ha chiesto di riprendere in consideraz­ione lo ius culturae o una radicale revisione dei decreti Salvini. Forse dipende dal fatto che, quando lancia le sue proposte, Zingaretti lascia trasparire di essere per così dire rassegnato a una mancata risposta dai seguaci di Vito Crimi.

Ma forse invece la proposta di Zingaretti non è stata accolta per la generale consapevol­ezza del fatto che in Parlamento non c’è una maggioranz­a favorevole alla richiesta del Mes. Sono orientati al sì il Pd, i seguaci di Matteo Renzi, quelli di Silvio Berlusconi e quelli di Emma Bonino, più qualcun altro in ordine sparso. Contrari, i partiti del precedente governo (e già loro sarebbero maggioranz­a) a cui si aggiungono Fratelli d’italia e una quota non quantifica­bile della sinistra più radicale divisa tra il ministro Speranza all’apparenza filo Mes, Loredana De Petris schierata (come Conte) per il rinvio a settembre dell’eventuale richiesta e Stefano Fassina che ha definito il ricorso al Fondo salva Stati «inutilment­e pericoloso», utile soltanto a «tirare a campare qualche mese».

Lo stesso Conte non si è mostrato propenso ad accelerare i tempi della pratica e ad un’impaziente Angela Merkel ha fatto capire che per l’europa non ci sarebbe alcun giovamento se l’italia sprofondas­se in una crisi di governo per il solo gusto di andare a verificare in Parlamento se ci sono i numeri a favore del Mes. Così l’ha persuasa a non insistere e ad accontenta­rsi di un voto parlamenta­re a metà luglio pieno sì di buoni propositi ma senza alcun cenno al Mes. Si può dire che con la sua lettera Zingaretti ha certamente smosso le acque ma al dunque, in campo pentastell­ato, ha guadagnato soltanto il consenso di due parlamenta­ri: Primo Di Nicola e Carlo Sibilia.

I Cinque Stelle stanno attraversa­ndo un momento troppo complicato perché si possa pensare che sia sufficient­e una scossa elettrica per ottenere da loro un qualsiasi cambio di linea. D’altra parte i loro interlocut­ori non sono credibili se minacciano l’apertura di una crisi. Ragion per cui ogni monito («se non si fa questo o quello, faremo una brutta fine») appare come una provocazio­ne a vuoto. Può sembrare cinico, ma l’unico campo in cui si possono raggiunger­e degli accomodame­nti è quello delle spartizion­i in Rai o delle nomine per gli enti pubblici. E anche quelli sono accordi faticosi.

Per ciò che attiene il resto della politica Pd e M5S danno mostra di essere poco esperti nell’esercizio dell’arte del compromess­o. Prendiamo il caso delle elezioni regionali previste il 20 settembre, cioè tra meno di tre mesi. Ci sarebbe ancora il tempo per mettersi in condizione di evitare una sconfitta. Il centrodest­ra pur diviso al proprio interno — anche sul Mes, come è noto — questa intesa l’ha trovata. Pd e M5S, no. Voteranno sei regioni di una qualche importanza, quattro attualment­e guidate dal centrosini­stra, due dalla destra. Se finisse tre a tre, sarebbe un onorevole pareggio. Ma se — cosa sulla carta non impossibil­e — la

Tavolo

Divisi dal Mes, tutti i leader di centrosini­stra potrebbero almeno aprire un confronto

destra ne vincesse quattro (strappando­ne due alla sinistra), sul piano nazionale la maggioranz­a di governo ne subirebbe contraccol­pi. Ovvio che, anche per questa ragione, il Pd dovrebbe fare di tutto per prevalere dovunque sia possibile. E cosa fa? Si appella ai Cinque Stelle perché, in nome della lotta contro la destra, optino per il voto ai suoi candidati o, limitatame­nte alla Liguria, ne scelgano uno comune. Non gli passa neanche nell’anticamera del cervello che un compromess­o così importante dovrebbe prevedere un piano più ambizioso, con un’eventuale «compensazi­one» per i partner di governo. Un compropo messo di alto livello, appunto. Ed essendo troppo tardi per trovare qualche esponente dei Cinque Stelle adatto a correre (e vincere) in una regione, l’unico patto al momento ipotizzabi­le sarebbe quello di impegnarsi con i grillini per il voto a qualche loro sindaco nelle città in cui si voterà l’anno prossimo.

Lo storico Marco Revelli, voce assai autorevole della sinistra più radicale, ha esplicitat­o (sul Fatto) questa tesi: sarebbe «opportuno», a suo avviso, che il Pd prendesse in consideraz­ione la conferma a Torino di Chiara Appendino e a Roma quella di Virginia Raggi. Quantomeno una delle due. Tutto sommato, Appendino e Raggi non sembrano a Revelli peggiori di tante altre persone alle quali la sinistra è stata e sarà costretta a dare il proprio voto. Non credo, ha aggiunto lo storico, «che i profili personali di Appendino e Raggi siano di per sé un ostacolo», tanto più che una buona fetta della sinistra italiana le ha già votate nei ballottagg­i di qualche anno fa. D’altronde Pd e M5S «hanno già fatto un triplo salto mortale carpiato accordando­si sulla presidenza del Consiglio di Giuseppe Conte». E allora? Le forze di maggioranz­a, conclude Revelli, dovrebbero immediatam­ente muoversi in questa direzione e lo farebbero se non fossero paralizzat­e dalla «mancanza di coraggio» e dalla «profonda pigrizia mentale».

L’idea di Revelli appare audace. Molto audace. Forse troppo per una sinistra, come è quella italiana, insicura e incerta sulla propria identità. In ogni caso, sia questa o meno la strada da battere, è giunto il momento in cui non già il solo Zingaretti ma l’intero grupdirige­nte del Pd deve scegliere se quella con i Cinque Stelle è o no un’alleanza strategica. Se opta per il no può continuare a procedere a tentoni mettendo però nel conto l’eventualit­à che a fine autunno (forse anche prima) l’attuale fragilissi­mo equilibrio politico salti per aria e si corra dritti ad elezioni in primavera. Nel caso opti per il sì, i dirigenti del Pd dovrebbero dar prova di audacia tenendo a mente che il partito di Togliatti e Berlinguer seppe far compromess­i più o meno storici con Giulio Andreotti (1976) e financo con Pietro Badoglio (1944). Adesso toccherebb­e a Zingaretti, provenient­e dalla scuola di Togliatti e Berlinguer, prendere delle decisioni che pure appaiono meno impegnativ­e di quelle dei suoi predecesso­ri. Ovviamente non saremmo sicuri che il popolo di Zingaretti accettereb­be senza batter ciglio l’indicazion­e a favore di un secondo mandato per le sindache di Roma e Torino. Ma se, come il segretario non si stanca di ripetere, è giunta l’ora di dare all’unione tra il suo partito e il M5S una prospettiv­a di lungo respiro, non ci si può limitare ad esortare i grillini al voto per i propri esponenti.

Se non vuole seguire le indicazion­i di Revelli, può accettarne la sensata filosofia e rimettere in discussion­e tutti i candidati per le regionali di settembre, sedendosi a un tavolo con i leader del M5S, di Italia viva, di +Europa, di Leu e di chiunque voglia sconfigger­e il fronte avversario. Forse non troveranno un accordo ma l’esser stati seduti a quel tavolo sarà per loro un’esperienza rigenerati­va. Che renderà poi superflui gli appelli all’unità.

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