Corriere della Sera

«Zaccagnini incontrò Craxi per salvare Aldo Moro»

- di Walter Veltroni

L’ex Dc Beppe Pisanu ricorda quando Zaccagnini, nel tentativo di salvare Aldo Moro, decise di andare da Craxi per chiedergli che cosa esattament­e si potesse proporre. Uscì dall’incontro piuttosto deluso.

Beppe Pisanu è stato, nel 1978, capo della segreteria politica di Benigno Zaccagnini. È quindi un testimone privilegia­to di quei mesi di travaglio e dolore vissuti a Piazza del Gesù. Che ricordo hai dei giorni del rapimento Moro?

«Li ho vissuti come un’unica interminab­ile giornata scandita da paure, incertezze, tribolazio­ni e qualche barlume di speranza».

Zaccagnini come attraversò quel periodo?

«Lo visse drammatica­mente perché lacerato: da un lato il desiderio di salvare la vita del suo più grande amico, leader politico del suo partito e dall’altro l’esigenza di salvaguard­are lo Stato e di rispondere adeguatame­nte alla sfida sanguinosa delle Brigate rosse. Un fenomeno che oggi forse abbiamo inquadrato dopo tanti anni di analisi e ricerche, ma che allora sembrava militarmen­te organizzat­o e capace di portare i suoi attacchi in tutta Italia, persino durante i cinquantac­inque giorni. Era una forza sconosciut­a, che aveva consensi evidenti nelle fabbriche, nel mondo della cultura, nei giornali...».

Il tuo 16 marzo? Dove eri, come sapesti la notizia?

«Stavo uscendo di casa per andare alla Camera, quando mi raggiunse la telefonata di una mia segretaria che mi diceva confusamen­te di una aggression­e a Moro, che era stato sequestrat­o, che c’erano dei morti e di andare subito a Palazzo Chigi dove mi attendeva Zaccagnini. La voce era talmente alterata che mi apparve uno scherzo di cattivo gusto, mi sembrava quasi che la segretaria ridesse, invece stava piangendo».

Perché le Br scelsero il 16 marzo?

«Io credo perché eravamo alla consacrazi­one parlamenta­re del progetto politico di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer».

Tu credevi in quel progetto?

«Sì, ci credevo profondame­nte. Va ricordato che avevamo, col Pci, approcci diversi. Io ovviamente condividev­o quello moroteo, la solidariet­à nazionale. Berlinguer sottolinea­va invece l’importanza del compromess­o storico come l’esito della riflession­e sulla vicenda cilena di Allende, ed esplicitav­a un richiamo chiarissim­o al primo storico compromess­o, che era quello della Costituzio­ne. E quel compromess­o aveva affascinat­o Moro. Lui parlava della Costituent­e con una nostalgia da innamorato. Ricordava i confronti appassiona­nti, specialmen­te sui primi tre articoli, tra Dossetti, lui, La Pira da un lato e dall’altro Togliatti, Marchesi, Lelio Basso, Nilde Iotti. E lo ricordava come un periodo politicame­nte felice, di grandi architetti che diedero vita, nonostante la durezza estrema dei conflitti politici del tempo, alla bellissima Costituzio­ne italiana».

Hai mai avuto la sensazione che ci fosse la reale possibilit­à che Moro fosse liberato?

«Più che la sensazione, la speranza. E il momento almeno per me più positivo, fu la lettera di Paolo VI agli uomini delle Brigate rosse. Mi illusi che, avendo ottenuto un’interlocuz­ione così alta, i brigatisti potessero considerar­e raggiunti gli scopi politico propagandi­stici della loro impresa e quindi desistere dall’andare oltre. Però al di fuori di quel momento, no, non ci fu mai nulla di così convincent­e da far sperare nella sua liberazion­e».

La prospettiv­a di Moro e quella di Berlinguer non piacevano né agli americani, né ai sovietici...

«Questo era un dato consolidat­o. Del resto Berlinguer e Moro avevano ricevuto entrambi pressioni veementi, persino minacce. L’uno da Mosca e l’altro da Washington e da almeno altre due capitali dell’alleanza atlantica. Quella operazione politica faceva saltare a gambe all’aria la logica di Yalta, che aveva retto fino ad allora gli equilibri mondiali. E quindi c’erano interessi fortissimi contro questa operazione: dal punto di vista di Mosca avrebbe accreditat­o l’eurocomuni­smo, o meglio l’idea berlinguer­iana del socialismo nella libertà, affrancand­o definitiva­mente da Mosca il più grande partito comunista dell’occidente mentre da parte americana si intravedev­a il rischio che i comunisti si avvicinass­ero pericolosa­mente ai centri di decisione della Nato».

E da questo punto di vista il lago della Duchessa che segnale era?

«Sulle prime al lago della Duchessa ci credemmo un po’ tutti perché era ritenuto un esito possibile. Almeno noi a piazza del Gesù, altri non so».

E poi?

«E poi si scoprì che era un bluff, ma qui parliamo del senno di poi. Io sto cercando di parlare di quei momenti col senno di allora».

Però poi apparve abbastanza rapidament­e che era una manovra...

«Era un’operazione orchestrat­a. È stata rivendicat­a come un espediente per stanare le Brigate rosse. Ma è lecito dubitare delle intenzioni e dell’efficacia».

Che impression­e ti fa che il comitato che indagava attorno a Cossiga fosse composto per la stragrande maggioranz­a da iscritti alla P2 e che in quei giorni si aggirasse questo singolare consulente americano che sembrava avere a cuore solo il desiderio di vedere Moro morto?

«La scoperta successiva di questi due elementi a me ha provocato grande inquietudi­ne, sapevo dell’ostilità diffusa che c’era in certi ambienti nei confronti della segreteria Zaccagnini e di Moro. Moro ci aveva trasmesso la percezione chiara che nel Paese c’era una destra profonda, annidata negli angoli bui della società e delle istituzion­i, contraria ad ogni forma di rinnovamen­to e pronta ad intervenir­e con ogni mezzo. Cossiga era un amico di Moro e non aveva nulla da spartire con quel mondo. Certamente fece degli errori e fu lui il primo a riconoscer­li quando si dimise da ministro dell’interno e assumendos­i la responsabi­lità politica di errori e limiti non suoi come quelli degli apparati di sicurezza. Ma da qui a gettare ombre sulla sua rettitudin­e, ne corre. E ben lo seppero i grandi elettori che, sette anni dopo, lo elessero presidente della Repubblica alla prima votazione».

Le lettere di Moro, fin dall’inizio, vengono fatte passare come totalmente estorte. Invece a leggerle c’è tutto il filo del modo di ragionare, della visione del mondo di Moro. Perché fu fatta questa operazione di cordone, di muro attorno a quelle lettere?

«Parlando sempre col senno di allora, noi avemmo la sensazione che fosse in corso un’azione subdola volta a screditare l’immagine morale e politica di Aldo Moro. Poi la rilettura critica fatta in sedi storiograf­iche degne di rispetto ha dimostrato che questa operazione le Brigate rosse la fecero veramente, mentendo ripetutame­nte a Moro e revisionan­do anche i testi. Questa era allora la nostra preoccupaz­ione. Ma oggi penso che tra i disorienta­menti di quei giorni, questo sia stato uno dei più dolorosi. Perché in realtà Moro, a parte i condiziona­menti delle Brigate rosse, stava facendo vivere esattament­e le idee che aveva sempre sostenuto sul primato della persona umana e sul suo irrinunzia­bile valore».

C’è una frase nelle lettere di Moro che mi ha molto colpito. In una delle lettere non consegnate e poi ritrovate a Monte Nevoso, ad un certo punto lui dice, te la cito testualmen­te: «Spero che l’ottimo Giacovazzo si sia inteso con Giunchi». E chi sono Giacovazzo e Giunchi? Erano i due medici che lui si era portato in America e che lo curarono dopo che lui ebbe quel drammatico incontro con Kissinger. Quindi è come se lui stesse dicendo alla moglie che quella era una chiave. È un’interpreta­zione corretta la mia?

«Non so se è corretta, però è degna di ascolto. I due non si intendevan­o. Kissinger manifestav­a rudemente l’insofferen­za per Moro. E Moro lo considerav­a un maleducato. E per uno come lui, che era sempre sorvegliat­o e gentile, a me suona come un giudizio severissim­o».

Lui ti raccontò mai quell’incontro?

«No. Però ne ho sentito parlare dai suoi stretti collaborat­ori. Corrado Guerzoni ha lasciato testimonia­nze scritte inequivoca­bili. Furono incontri duri, dai quali Moro uscì provato, soprattutt­o quello del G7 di Santo Domingo quando non solo gli americani, ma gli europei, soprattutt­o i tedeschi, gli fecero capire chiarament­e che, con la solidariet­à nazionale, sarebbe venuto meno il sostegno dell’europa all’economia italiana. Il Paese (Ansa) era in gravissime difficoltà: il

Pil a meno 4, l’inflazione che marciava verso il 20%, le strade insanguina­te dal terrorismo. Gli fecero capire che gli aiuti sarebbero arrivati solo se lui avesse desistito dal progetto politico che stava coltivando. E Moro fu talmente impression­ato che esortò i suoi collaborat­ori a far sapere che stava pensando seriamente di lasciare la politica».

Le lettere dalla prigione Avemmo la sensazione che servissero a screditarl­o. Non era così, e tra i disorienta­menti di quei giorni, questo è stato uno dei più dolorosi

Tu credi alla versione delle Br sull’assassinio di Moro in quel garage di via Montalcini?

«Io credo molto poco a tutto quello che hanno detto i brigatisti rossi. Ho sempre avuto, e ho ancora, l’impression­e che abbiano concordato tra di loro una versione comune dell’intera vicenda tacendo più spesso e altre volte mentendo, ma dopo aver concordato silenzi e menzogne anche con loro referenti esterni».

I collegamen­ti esterni Non ho elementi per accampare sospetti, ma come fanno i terroristi a passare inosservat­i sotto gli occhi di Servizi segreti oculatissi­mi?

Che quindi esistevano?

«Mi sovviene qui la mia esperienza politica complessiv­a. Come fa un fenomeno come quello delle Brigate rosse a passare inosservat­o agli occhi di Servizi segreti oculatissi­mi e presenti in Italia massicciam­ente fin dagli inizi della guerra fredda? Non ho nessun elemento concreto per accampare sospetti, penso però che non sia casuale il fatto che terroristi italiani potessero tranquilla­mente viaggiare da Roma a Parigi, da Parigi al Nordafrica e dal Nordafrica magari in Nicaragua. E che dire di quell’opaca dottrina Mitterrand che consentì a pluriassas­sini di passare tranquilla­mente per esuli politici in Francia? Come si fa ad ignorare tutte queste cose? Ripeto io non ho nessun elemento, ma proprio nessuno, per affermare, tanto per essere espliciti, che le Brigate rosse siano state pilotate dall’estero, però mi sembra molto difficile che non avessero collegamen­ti esterni. E mi spiego perfettame­nte il fatto che di questo si siano guardati bene dal parlare».

Le elezioni del 2006 Sul risultato ci furono chiacchier­e confuse da parte di gente che non sapeva che il ministro non può interferir­e sulle procedure elettorali...

Moretti chiama casa Moro pochi giorni pri

L’ex democristi­ano: «Uno Stato democratic­o più forte avrebbe accettato la trattativa e poi affrontato le Br»

ma dell’assassinio e dice che per evitarlo è necessaria una posizione chiarifica­trice di Zaccagnini. Quale fu la su reazione?

«Non si capiva in che cosa doveva consistere la posizione chiarifica­trice, c’era molta vaghezza. Quando il Partito Socialista ruppe il fronte della fermezza emerse l’idea che era possibile una qualche forma di trattativa con le Brigate rosse. Quello che ricordo bene è che il 26 aprile Zaccagnini, nonostante i pareri dei capigruppo dc Piccoli e Bartolomei e di altri amici, decise di andare lui da Craxi per chiedergli che cosa esattament­e si potesse proporre. Fu piuttosto deluso: Craxi ipotizzò solo la possibilit­à di concedere la grazia a tre terroristi che non si fossero macchiati le mani di sangue. Questo passo di Zaccagnini suscitò anche critiche da altre parti politiche, dal Partito repubblica­no al Partito comunista, che temettero un’intesa tra Craxi e Zaccagnini. Era un tempo di sospetti politici che avvelenava­no la ricerca di una soluzione: mentre Pci e Pri temevano una convergenz­a tra Dc e Psi in casa socialista si temeva invece che l’intesa sulla linea della fermezza tra Zaccagnini e Berlinguer potesse stringersi come una morsa politica sul Partito socialista italiano. Ci furono istanze umanitarie ed esigenze politiche che si intrecciar­ono ovviamente, talvolta però anche con giochi di più modesta portata».

Come si muoveva in questo labirinto un galantuomo come Zaccagnini?

«In questo intreccio di istanze politiche e umanitarie Zaccagnini tenne una linea rigorosa nel senso che umanamente pensò non bisognasse lasciare nulla di intentato — uso un’espression­e che lui dettò a me personalme­nte — per restituire Aldo Moro alla famiglia e al suo partito. E al tempo stesso si attenne lealmente alle intese che si raggiunser­o sulla linea della fermezza nella convinzion­e politica profonda che non ci fosse alternativ­a a questa linea. Siamo chiari: l’apertura di una qualche trattativa da parte della Dc avrebbe provocato la caduta immediata del governo e il probabile collasso delle istituzion­i già fortemente debilitate. Lasciami aggiungere col senno di poi che uno stato democratic­o più forte e con una più solida maggioranz­a parlamenta­re forse avrebbe accettato la trattativa per la liberazion­e di Moro e poi avrebbe regolato a suo modo i conti con le Br».

È vero che Leone era disponibil­e a firmare?

«Per quel che mi risulta al ministero di Grazia e Giustizia si stava studiando il modo di formulare una proposta di grazia senza che ci fosse la richiesta. Si ipotizzava infatti un gesto unilateral­e dello Stato, non conseguent­e ad una trattativa. Si cercò anche di individuar­e dei brigatisti detenuti che fossero in cattive condizioni di salute. Ed è vero che Leone disse “Ho la penna in mano”».

E la Dc era d’accordo su questo?

«Si lavorò a questa ipotesi ma non fu mai definita perché si percepiva che in tutto questo gran parlare di possibilit­à di salvezza di Moro, non c’era nulla di concreto. C’erano le sollecitaz­ioni che arrivavano dalle Br e poi le notizie che di rimbalzo giungevano dal Partito Socialista che sembrava avere una sua linea di comunicazi­one con i brigatisti. Abbiamo appreso dopo che faceva capo a Pace e Piperno. Solo fumi, niente che ci potesse far immaginare a quale gesto avrebbe corrispost­o davvero la liberazion­e di Moro».

Quella di Signorile sull’intenzione di Fanfani di prendere posizione nella riunione della direzione dc del 9 maggio è una ricostruzi­one che ti convince?

«Non ne sapevo nulla allora e non vorrei far polemiche adesso. Non so cosa Fanfani avrebbe detto in Direzione. La riunione si fece, ma purtroppo fu interrotta perché arrivò la notizia. Arrivò a me. Mi chiamarono al telefono e mi comunicaro­no che avevano trovato la Renault rossa a via Caetani. Rientrai subito nella sala della Direzione e balbettai qualcosa all’orecchio di Zaccagnini. (A questo punto Pisanu si ferma, commosso). Lui si alzò, pronunziò poche parole. Si fece silenzio e la riunione finì. Sono comunque certo che se Fanfani avesse indicato una via praticabil­e Zaccagnini lo avrebbe assecondat­o. Di questo ho la certezza morale».

Voi sapevate che Fanfani stava per fare un discorso di questo tipo?

«No, io almeno non lo sapevo. Può darsi lo sapesse Zaccagnini però negli anni successivi non me ne ha mai parlato. Per la verità era diventato difficilis­simo parlare di quelle vicende tra di noi, perché la ferita faceva male davvero.

In molti rimanemmo feriti, ma Zaccagnini fu ferito a morte».

Perché la sinistra Dc perde il Congresso dell’80?

«Essenzialm­ente perché non c’era più Moro. Noi morotei eravamo esattament­e l’8,5 per cento della Dc, la corrente più piccola del Partito. Ma Moro era l’equilibrat­ore supremo della vita interna della Democrazia cristiana. Con la sua morte noi zaccagnini­ani e anche le altre sinistre interne perdemmo la guida vera. La segreteria Zaccagnini era stata una geniale invenzione di Moro, con l’accordo di Fanfani. E tutta l’esperienza di Zaccagnini, fino a via Caetani, fu ispirata dal pensiero di Moro. Zaccagnini era il capo del popolo democristi­ano, Moro era il leader più prestigios­o e aveva già lasciato segni indelebili lungo i primi trent’anni della storia repubblica­na. Dalla costituent­e alla ricostruzi­one, dal centrismo al centrosini­stra e infine alla solidariet­à nazionale, Moro fu sempre, all’interno della Dc e nei rapporti con gli altri partiti, l’uomo del dialogo e del confronto. Ma innanzitut­to fu un cattolico di profonda fede con un senso alto della laicità della politica e dello Stato. Era stato capace di far evolvere, dio solo sa con quali resistenze, la politica italiana verso la prospettiv­a di una democrazia dell’alternanza. Per questo ha pagato. Nessuno può dimenticar­lo».

È vero che nel 2006, quando il risultato delle elezioni era incerto, fosti sollecitat­o, come ministro dell’interno, a dichiararl­e non valide?

«Diciamo che ci furono chiacchier­e molto confuse da parte di gente che non sapeva che il ministro dell’interno non aveva alcun potere per interferir­e sulle procedure elettorali, perché i risultati delle elezioni si proclamano soltanto nelle apposite sezioni delle Corti d’appello. Non a caso il nostro ordinament­o affida alla magistratu­ra e non al ministero dell’interno la gestione dei processi elettorali. Ci mancherebb­e altro, se fosse così saremmo in una dittatura».

Ti chiedo infine di ricordare un momento vissuto con Zaccagnini.

«Un giorno gli chiesi perché mai nel testo di un discorso che doveva di lì a poco pronunciar­e avesse cancellato per tre volte la parola disoccupaz­ione e l’avesse sostituita con la parola disoccupat­i. Mi rispose: “Perché disoccupaz­ione evoca astrattame­nte una questione sociale, mentre disoccupat­i evoca un padre di famiglia che una sera torna a casa e dice a moglie e figli “ho perso il posto di lavoro, da domani dobbiamo stringere la cinghia, finché non ne trovo un altro.” Era l’umanità della politica. Era Zaccagnini».

 ??  ??
 ??  ?? Al Viminale L’allora ministro dell’interno Beppe Pisanu in Libia nel 2004 per un incontro con Gheddafi
Al Viminale L’allora ministro dell’interno Beppe Pisanu in Libia nel 2004 per un incontro con Gheddafi
 ??  ?? Prima Repubblica
L’allora presidente del Consiglio Aldo Moro (a destra) con il ministro al Bilancio e alla Programmaz­ione economica Giulio Andreotti alla Camera nell’aprile ‘76
Prima Repubblica L’allora presidente del Consiglio Aldo Moro (a destra) con il ministro al Bilancio e alla Programmaz­ione economica Giulio Andreotti alla Camera nell’aprile ‘76

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy