Trump a picco nei sondaggi rischia la disfatta con Biden E c’è anche chi evoca il ritiro
Ma il lobbista Norquist: «Impossibile, non esiste alternativa»
WASHINGTON I sondaggi vanno di male in peggio. E più Donald Trump si agita, nel tentativo di recuperare terreno, più sembra perdere consensi. Tanto che è cominciata a girare la voce, ripresa persino da Fox News che potrebbe addirittura ritirarsi prima delle elezioni del 3 novembre. La prospettiva di una sconfitta non è mai stata così netta e l’esperienza di questi quattro anni di trumpismo insegna che è meglio non escludere nulla a priori.
I numeri, innanzitutto. Il tabellino compilato dal sito «Realclearpolitics», che calcola la media delle diverse rilevazioni, è spietato. A livello nazionale il presidente è in ritardo di 9,4% sul candidato democratico, l’ex vice presidente Joe Biden. È vero che anche nel 2016 Trump fu sconfitto da Hillary Clinton nel voto popolare. Ma lo scarto risultò pari al 2,1%. Ora la distanza è quasi cinque volte più ampia.
I segnali più netti arrivano proprio dai territori in bilico, quelli che potrebbero rivelarsi decisivi grazie al meccanismo del collegio elettorale: il presidente viene eletto dai delegati scelti dai singoli Stati. Ebbene in Florida Biden è in vantaggio con il 6,4%; in Pennsylvania con il 7%; in Wisconsin con il 6,5%; in North Carolina con il 3,2% e persino in Arizona con il 6%.
Per Trump queste sono le percentuali di una disfatta, di un cappotto.
Negli ambienti conservatori la preoccupazione è diventata ansia e poi aperto allarme, man mano che il presidente collezionava strafalcioni nella gestione del Covid-19 e poi reagiva in modo controverso alle proteste per l’uccisione di George Floyd.
I repubblicani, certamente, scrutano con grande attenzione i sondaggi. A cominciare da quei senatori che rischiano di essere travolti con il boss della Casa Bianca.
Ma l’opinione di gran lunga prevalente è che all’orizsce, zonte non ci sia alcuna possibilità concreta di costruire da zero una candidatura alternativa a Trump. Ce lo conferma Grover Norquist, fondatore e presidente di «American for Tax Reform», uno dei think tank più importanti di Washington. Norquist organizza una riunione settimanale con i principali centri studi della capitale e inoltre partecipa ad analoghe conferenze nei diversi Stati. Conodunque, gli umori dei dirigenti politici repubblicani, a vari livelli: «Questa storia del ritiro è stata messa in giro da poche figure di “never Trumpers” emarginate dall’amministrazione. Non ci sono né i meccanismi né il consenso per immaginare di mettere in campo un concorrente diverso da Trump».
In realtà non ci sarebbero neanche i fondi, a meno che qualcuno riesca a immaginare che «The Donald» possa davvero trasferire i contanti raccolti finora, 225 milioni di dollari, a un altro candidato.
Si ragiona, dunque, sul cambio di strategia, non sulla sostituzione del leader. Il fallimento del comizio di Tulsa, in Oklahoma, ha indotto Jared Kushner, genero e consigliere di Trump, a licenziare Michael Glassner, responsabile degli eventi elettorali. Al suo posto torna Jeff Dewit, ideatore dei raduni nel 2016.
Inoltre si confida su un’inversione di tendenza nell’economia. Spiega ancora Norquist: «La vera ripresa dovrebbe cominciare il primo agosto. Quel giorno scadrà il sussidio aggiuntivo di 600 dollari per i disoccupati. Teniamo conto che ora il 63% dei beneficiari guadagna di più ora che prima della crisi. Ma una volta venuti meno i contributi, le persone torneranno a cercare un lavoro. Abbiamo visto già dei segnali di ripresa a giugno. Ne vedremo di più forti a luglio e poi, soprattutto, nei tre mesi che precedono le elezioni. Se le cose andranno così Trump se la potrà giocare alla pari con Biden negli “swing states”».