Corriere della Sera

Un attimo prima dell’apocalisse

L’infermiera, il poliziotto, l’imprendito­re, la prof Il noir di Roberto Costantini sui giorni del virus

- di Roberto Costantini

L’anticipazi­one Destini che si intreccian­o in un comune della Bergamasca travolto dalla pandemia. «Anche le pulci prendono la tosse»: esce oggi per Solferino e in edicola con il «Corriere della Sera» il nuovo libro del giallista. Eccone un estratto

Beatrice Boschi si districò nel traffico del mattino, peggiore del solito per la pioggia, fermò la Micra davanti al pronto soccorso nello spazio riservato alle ambulanze, lasciò lo sportello aperto, corse dentro e timbrò il cartellino un minuto prima dell’inizio del turno diurno.

Poi, con calma, cercò parcheggio per la Micra sul retro, nei posti riservati solo ai dipendenti, ma era tutto pieno, evidenteme­nte i pazienti in arrivo erano troppi, se ne fregavano e mettevano l’auto dove capitava. Restavano solo i posti per gli invalidi e scelse uno di quelli.

Poi andò al bar e si fece fare un tè e basta, perché aveva messo su un paio di chili ultimament­e e il croissant non era proprio il caso. Quando entrò, un quarto d’ora dopo, andò nell’ufficio che fungeva da spogliatoi­o femminile. Stava finendo di indossare il camice e gli zoccoli quando entrò Rosa.

«Sei in ritardo, in sala d’attesa c’è un sacco di gente».

«Ah, sì? Be’, io una cosa calda prima di iniziare la devo bere, ora vado!».

La caposala le porse una mascherina e un paio di guanti che Beatrice prese con sospetto.

«Perché adesso sì e prima no?».

«Il direttore sanitario ha detto che da oggi li dobbiamo mettere».

Beatrice si allarmò immediatam­ente. «Perché?». «Stanno arrivando notizie di un contagio di quel virus cinese... a Codogno, forse anche in un paesino del Veneto».

«Ma c’è pericolo?».

«Non ti preoccupar­e, sono pochi casi, è solo una precauzion­e».

«Guarda che io a casa ho una figlia con problemi di salute, non posso correre rischi». Rosa sospirò.

«Con la mascherina e i guanti sei a posto, bellina. La sera però la devi sterilizza­re, ne abbiamo poche, possiamo dartene solo una al giorno sino a che arrivano quelle nuove».

Beatrice indossò i guanti e la mascherina. Davanti allo specchio si fermò un attimo. La sua bellissima bocca era coperta, un vero peccato.

Uscì direttamen­te nella sala d’attesa del pronto soccorso e fu subito presa dal panico. C’era il triplo delle persone che normalment­e trovava lì a quell’ora. Perlopiù vecchi che tossivano e starnutiva­no, accompagna­ti da figli e nipoti che premevano sugli sportelli. Si rifugiò in bagno e chiamò il marito.

«Carlo, qui è un casino, è pieno di vecchi con la tosse... mi hanno persino obbligato a mettere guanti e mascherina... dicono che a Codogno...».

«Bea, calmati, lo so, ma è solo una giusta precauzion­e».

Il solito buonsenso, la solita calma di Carlo. E cosa si era aspettata, che venisse a prenderla sul cavallo bianco e la portasse via da quell’inferno? Beatrice chiuse la telefonata e uscì dal bagno, piena di rabbia e paura.

Guardò il primo vecchio della fila, che tossiva.

«Si copra la bocca e faccia un passo indietro!».

Quello restò sbalordito. Ma l’espression­e degli occhi di lei lo spaventò e arretrò velocement­e. In quel momento entrò il poliziotto, quello che girava sempre col cappotto di cammello e certi maglioni a collo alto che non metteva più nessuno. Ogni volta che lo incrociava le guardava la bocca e poi, lei lo percepiva sempre, le fissava il culo. Aveva pure un nome assurdo, Raymond Casiraghi, era il cognato della professore­ssa di lettere di sua figlia. Lui attraversò la saletta d’attesa lanciandol­e un’occhiata, fece una smorfia vedendo la mascherina, poi uscì dalla porta sul retro. Lei piantò lì i vecchi in fila e gli corse dietro. Uscì sotto la pioggia in tempo per vederlo attraversa­re il parcheggio e la strada, diretto verso la sala slot di quel tizio piccolo e scuro che era venuto una volta al pronto soccorso con un suo manovale nero, a cui era caduta sul piede una slot-machine dal camion.

«Ehi, ehi, commissari­o Casiraghi!». Il poliziotto si voltò e la guardò, fradicia sotto la pioggia, con la bocca coperta dalla mascherina, vero, ma col camice bagnato che le disegnava le poppe e i fianchi. Sembrò un attimo incerto, poi tornò indietro.

«Non sono commissari­o. Ispettore. Che cos’è quella, la museruola, signorina?».

«Signora. Mia figlia è in una classe di sua cognata».

«E allora? Che è ’sta mascherata? Fate il car

nevale al pronto soccorso?».

«Ma no, è per la storia di Codogno, per questo le sono corsa dietro, lei che è della polizia saprà la situazione di sicuro, l’è grave?».

Raymond non aveva proprio idea di cosa parlasse, ma aveva imparato a bluffare col poker. Non volendo fare la solita figura del fesso con quella gnoccona, si affidò alla classica frase del suo vecchio babbo rincoglion­ito.

«Ah, la situazione... Sento aria di un bel casino!».

La vide impallidir­e, la BB di Adeago. Si voltò e raggiunse la sala slot di Gavino Ortu. Lì notò subito una cosa: i cinesi erano spariti e alcuni clienti portavano la sciarpa dell’atalanta avvoltolat­a sul naso e sulla bocca.

La professore­ssa Regina Gonzaga in Casiraghi uscì di casa alle otto, Jacques dormiva ancora, i suoi poliambula­tori aprivano alle sette ma lui non ci andava mai prima delle undici. Si alzava solo dopo che lei era uscita, poi si dedicava per due ore alla lettura dei giornali, in particolar­e quelli di colore rosa sulle sue due passioni, i soldi e il calcio.

Anche quella notte lui aveva dormito ben rannicchia­to dall’altra parte del letto matrimonia­le, grande abbastanza perché non si sfiorasser­o nemmeno più, da oltre dieci anni. Purtroppo quel metro di distanza inibiva il tatto ma non l’olfatto e lei poteva sentirlo, l’odore che veniva dai capelli di lui, odore di fica giovane, probabilme­nte quella di Samantha.

Ma gli anni le erano serviti a capire che quella era una necessità per Jacques, non un vero tradimento. Anche se la comprensio­ne razionale è una cosa, la sofferenza un’altra.

Regina percorse a piedi il chilometro da piazza della Repubblica lungo corso Italia, verso la scuola. Pioviggina­va, piccole gocce gelide e dal colore indefinito, e la gente si affollava tutta sotto le arcate, anche quelli che avevano l’ombrello aperto. Si infilò nel solito Gran Caffè Invernizzi, l’ultimo prima del Duomo e della scuola. Era pieno di avventori accalcati che parlavano ancora della grande vittoria della dea, anche se il barista aveva tappezzato il locale con le foto del suo grande Milan. Tanto che a un certo punto lo sentì protestare con un cliente particolar­mente trionfalis­ta.

«Guardate che lo so perché correte tanto! Il vostro medico è amico di quello che cambia il sangue ai ciclisti!».

Regina trattenne un sorriso, ma le belle notizie non erano finite. La cassiera, che aveva due figlie nella sua scuola, alzò lo sguardo dal suo smartphone, tutta agitata.

«C’è il virus a Codogno, e anche in Veneto hanno chiuso bar, uffici, negozi. Forse persino le scuole. Dobbiamo chiudere pure qui, a scuola ci sono pure i figli dei cinesi». Regina la guardò estasiata. Chiudere le scuole!

Quello sì che era un sogno! Sin lì era stato il solito inizio giornata, lei invisibile a quel mondo che non l’aveva mai capita né voluta o almeno apprezzata, lei costretta da quella crudele Fornero a tanti altri anni di fatica prima della pensione, in balìa di ragazzini ignoranti e maleducati e di genitori che erano molto peggio dei figli.

Ma ora a Codogno le scuole chiudevano! A solo un’ora di macchina da lì, forse meno.

Buttò giù velocement­e il marocchino con la brioche integrale e uscì per infilarsi nel portone della scuola, tra i ragazzini che la spintonava­no e le pestavano i piedi.

L’ufficio del professor Nicola Nardo, dirigente scolastico catapultat­o al Nord dalla sua Puglia dopo aver vinto il concorso, era l’ultimo in fondo. Regina passò davanti alla cattedra della bidella, intenta a discutere del virus con un paio di mamme agitate quanto la cassiera del bar. Le stava rassicuran­do.

«Ma no, signore, qua mica siamo a Codogno! State tranquille, non ci sono rischi per i vostri figli!».

Prese ancor più coraggio e per la prima volta entrò senza fare toc toc sullo stipite della porta aperta, quell’orribile segno di sottomissi­one al potere. Il preside Nardo era uno di quei pazzi missionari convinti che l’istruzione pubblica fosse un bene a cui il popolo non aveva solo diritto, bensì il dovere di attingere, e che i professori fossero apostoli del Messia, solo che erano pure loro destinati al martirio. Un uomo possente col cranio rasato e l’aria sempre incazzata, che sapeva tutto della chimica e nulla del Manzoni. Era attaccato al telefono, anche lui discuteva animatamen­te con qualcuno. Regina si fermò appena oltre la soglia e si concentrò sulla parete alle sue spalle guardando, dal basso in alto, il crocifisso, la foto del presidente della Repubblica e un bel disegno incornicia­to, il volto di un vecchio dall’aria assente, con la barba rossiccia e una specie di colbacco. Regina Gonzaga in Casiraghi, che era colta, sapeva che quel disegno incrociava le due passioni del loro dirigente scolastico, l’arte impression­ista e la chimica. Il preside Nardo, appena insediatos­i, aveva spiegato a tutto il suo corpo docente che Vincent van Gogh senza la chimica non avrebbe mai avuto i colori per i suoi splendidi quadri, e che quindi nella sua scuola — aveva detto proprio così, «mia scuola» — le lettere e la scienza avrebbero avuto la stessa dignità, meno Manzoni e più elettrolit­i. Il tutto era stato scandito, più che spiegato, dal palco in aula magna, con linguaggio deciso ma elegante e forbito.

Solo che in quel momento l’eruditissi­mo dirigente scolastico Nicola Nardo era un po’ meno forbito del solito.

«E che cazzo! Chi decide ’ste cose? Il governo, il governator­e, il vescovo! Tutti ciaciè col deretano altrui! Il sindaco ha paura per i bambini, il vescovo ha paura per i bambini, e secondo loro io mi dovrei prendere la responsabi­lità di chiudere la scuola».

Ascoltò per un po’, poi esplose.

«Gli dica a quel capacchion del sindaco che può andare a farsi fottere. Io non chiudo niente, gli studenti e le famiglie hanno il diritto alle lezioni, chiudo solo con un ordine scritto del ministero».

Poi ebbe un accesso di tosse secca, buttò giù il telefono senza neanche vedere Regina Gonzaga in Casiraghi e imprecò a modo suo.

Al pronto soccorso «Arrivano notizie di un contagio di quel virus cinese... a Codogno» «Ma c’è pericolo?» «Non ti preoccupar­e, sono pochi casi»

Nel locale dei tifosi Raggiunse la sala slot Lì notò subito una cosa: i cinesi erano spariti e alcuni clienti portavano la sciarpa dell’atalanta avvoltolat­a sulla bocca

 ??  ?? La cover Anche le pulci prendono la tosse (Solferino, pp. 272, 15)
La cover Anche le pulci prendono la tosse (Solferino, pp. 272, 15)
 ??  ?? Pagine Roberto Costantini nella redazione del «Corriere della Sera». Costantini è nato a Tripoli, in Libia, nel 1952. La sua «Trilogia del male» ha vinto nel 2014 il premio speciale Giorgio Scerbanenc­o come «migliore opera noir degli anni 2000» (foto di Fabrizio Villa )
Pagine Roberto Costantini nella redazione del «Corriere della Sera». Costantini è nato a Tripoli, in Libia, nel 1952. La sua «Trilogia del male» ha vinto nel 2014 il premio speciale Giorgio Scerbanenc­o come «migliore opera noir degli anni 2000» (foto di Fabrizio Villa )

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