Corriere della Sera

LO STATO INVADENTE E INVISIBILE

- di Sabino Cassese

L’inchiesta giudiziari­a in corso sulla Lombardia Film Commission per la compravend­ita di un immobile ha richiamato l’attenzione su questa e sulle molte istituzion­i similari.

La Lombardia Film Commission è stata istituita da Regione Lombardia e Comune di Milano per promuovere sul territorio la realizzazi­one di film, fiction tv, spot pubblicita­ri, documentar­i, al fine di «aumentare la visibilità del territorio lombardo» e «diffondere l’immagine della regione», oltre che per lo sviluppo delle imprese audiovisiv­e e del «cineturism­o». A questo fine, assiste, ospita, promuove, aiuta imprese private. Fa parte di una rete di diciannove analoghe istituzion­i, create e finanziate da comuni e regioni, di dimensioni finanziari­e diverse, ma con compiti assimilabi­li (alcune organizzan­o anche festival e sostengono in altro modo la produzione di audiovisiv­i).

Tutte queste fondazioni non profit, ma costose per i bilanci regionali, pur essendo tra di loro in concorrenz­a, sono associate in un organismo nazionale, l’«Italian Film Commission­s» e persino in un «European Film Commission­s Network», che ne raggruppa 98.

Queste istituzion­i sono un bell’esempio del tentativo di specializz­azione dell’azione dei poteri pubblici, che conduce all’«ad-hoc-crazia», ma è anche indice del sempre crescente loro interventi­smo e del conseguent­e sfarinamen­to dello Stato.

Perché il lettore abbia una idea concreta di questo fenomeno, ricorderò che, secondo le indagini più recenti, le partecipat­e pubbliche, in larghissim­a misura locali, sono 7.300, con oltre un milione di addetti (ma solo un quarto con più di 50 dipendenti), un quarto con più amministra­tori che dipendenti, molte in perdita struttural­e, alcune inattive o incapaci di realizzare lo scopo sociale, molte doppioni.

Su questa variopinta realtà, che ricorda l’Italia del comuni medievali, causa dell’«insigne faiblesse» (Fernand Braudel) della nostra Penisola, e che sfugge a una conoscenza sistematic­a per la sua varietà, si sono cimentati di recente, con accurati rapporti, il ministero dell’Economia e delle Finanze, l’Istituto nazionale di statistica, la Banca d’Italia, la Corte dei conti e persino il Fondo monetario internazio­nale. Nel 2014, Cottarelli ne fece oggetto di una analisi attenta. Nel 2016 il governo Renzi ne tentò una disciplina, con l’obiettivo di ridurre il numero di questa massa di organismi da circa 8 mila a circa mille. Ma il tentativo non è riuscito (il taglio ha intaccato solo il 14 per cento delle partecipat­e). L’errore è stato quello di voler affrontare un così grande e diversific­ato numero di enti dall’alto, invece di procedere come fece Ugo La Malfa nel suo famoso rapporto dell’aprile 1951 su «la riorganizz­azione delle partecipaz­ioni economiche dello Stato», che partì dall’analisi economica, settore per settore, società per società. Non si governa una realtà tanto magmatica se non la si conosce e valuta dall’interno. L’altro errore è stato quello di trasferire vincoli pubblicist­ici su questo universo regolato dal codice civile, con la conseguenz­a di diminuire o annullare i benefici della veste privatisti­ca delle società veramente utili e di non frapporre sufficient­i limiti per quelle inutili.

Le conseguenz­e di questi insufficie­nti tentativi di porre rimedio sono indicate dal rapporto del febbraio 2020 del Fondo monetario internazio­nale. Questo ha osservato che le disposizio­ni dettate nel 2016 sono state indebolite o rovesciate e che la complessit­à e le incertezze nell’applicazio­ne ne hanno fortemente attenuato l’impatto.

Una volta, nei decenni iniziali della storia repubblica­na, era inibito agli enti territoria­li di ricorrere all’istituzion­e di società e fondazioni. Poi, le maglie si sono allargate, ma si è mantenuto un controllo indiretto, di ordine finanziari­o. Ora è venuto meno anche quello, con la conseguenz­a che il nostro è divenuto uno Stato «à la carte», dove ognuno si serve come crede e nessuno si pone poche essenziali domande, che proverò a riassumere, facendo proprio riferiment­o alle «Film commission­s».

La prima: è ragionevol­e che le Regioni si interessin­o di cinema e audiovisiv­o? Non dovrebbero piuttosto dedicare le loro energie alla sanità, ai trasporti, all’assistenza? Se il cinema rientra nell’ambito della cultura, non dovrebbe interessar­si anche di questo il ministero dei Beni culturali e del Turismo?

La seconda: se le esistenti diciannove istituzion­i localiregi­onali si riconoscon­o come omogenee, tanto da associarsi sia a livello nazionale, sia a livello sovranazio­nale, perché poi seguono regole diverse nella gestione (ad esempio, alcune applicano le regole sulla trasparenz­a, altre sembrano dimenticar­le)?

La terza domanda riguarda tutto l’ambito delle partecipat­e: se da queste dipende un milione di persone, perché mai continuiam­o a sostenere che gli addetti delle pubbliche amministra­zioni sono circa 3 milioni e mezzo? Non dovremmo aggiungerv­i anche questo altro milione, con la conseguenz­a di smentire coloro che sostengono la tesi secondo la quale il rapporto dipendenti pubblici-popolazion­e sarebbe in Italia tra i più bassi d’Europa (ciò che consente di far partire nuovi concorsi in abbondanza)?

Una volta, fino agli anni 90 del secolo scorso, avevamo un vasto numero di enti e società nazionali. Ridotti questi, si è ampliata la sfera delle organizzaz­ioni satelliti locali. Sarebbe ora di razionaliz­zare queste frange degli enti territoria­li. Se ne accorgeran­no coloro che vogliono ridurre parlamenta­ri, vitalizi, indennità?

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