Corriere della Sera

LA SCUOLA DELLA LUCE

LA FORTUNA DEI MACCHIAIOL­I E QUELL’ESERCITO DI SOSTENITOR­I

- Di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it

Il successo popolare e commercial­e che continua ad accompagna­re gli Impression­isti anche nel nostro tempo quasi ci fa dimenticar­e il velo di sprezzante ironia che accompagnò la nascita di questa parola, coniata da un critico altezzoso che parlava di «impression­i» più che di «dipinti». È avvenuto lo stesso con i Macchiaiol­i? Anche questa definizion­e nacque, nel 1862, da un critico de La Gazzetta del Popolo, intenziona­to a sminuire il prestigio della scuola toscana di pittura (e idee) che si era formata a metà dell’Ottocento. «Macchie», non «quadri».

Il punto è questo: solo gli studi più recenti hanno messo in rilievo la qualità internazio­nale delle opere di Lega, Fattori e di tutti gli altri Macchiaiol­i. Per molto tempo questi artisti sono stati relegati al ruolo asfittico di «scuola italiana», se non provincial­e. Tutt’al più, come ebbe a dire uno dei maestri della storia dell’arte, André Chastel, di «cugini maggiori degli Impression­isti».

E la mostra di Palazzo Zabarella, con il lavoro scientific­o di Mazzocca e Matteucci, tocca un tasto importanti­ssimo nel ripercorre­re la fortuna dei Macchiaiol­i, cioè il collezioni­smo. Cruciale qui risulta il ruolo di eroici sostenitor­i del movimento, a cominciare da critici d’arte e scrittori come Diego Martelli, per continuare con i colleghi come lo scultore Rinaldo Carnielo e le famiglie di mecenati quali i Cecchini o i Batelli.

Ma allora ci si chiede: perché uno come Telemaco Signorini, che sin dai primi del Novecento poteva contare su lunghi articoli pieni di elogi del massimo critico dell’epoca, Ugo Ojetti (memorabile un suo ritratto su la Lettura del Corriere della Sera del 1909), ancora oggi fa fatica a tenere il confronto in termini di popolarità internazio­nale con Monet?

Forse conviene fare un passo indietro e appuntarsi la data precisa in cui venne coniato il termine «Macchiaiol­i»: era il 1862. Cioè l’anno in cui in Francia Édouard Manet dava i primi colpi di pennello al rivoluzion­ario Le déjeuner sur l’herbe e in Italia si pensava ad altro, cioè a unificare il Paese.

In quell’anno Garibaldi venne fermato dall’esercito regio sull’Aspromonte e le tensioni sociali e politiche erano molto forti. Come ricordano i curatori, il movimento si caratteriz­zò proprio per questa introiezio­ne degli ardori, delle aspirazion­i, degli ideali che permeavano l’idea di «un altro Paese», forse di un altro mondo.

Ma attenzione: la loro qualità «politica» aveva una natura sottile, applicata alla vita quotidiana, più che ai roboanti affreschi storici. L’eroismo della loro poetica sta nella fatica dei lavoratori o nell’energia dei corpi giovani, quando non diventa aspirazion­e a una vita borghese.

Lo stesso sottotitol­o della mostra padovana, con un’allusione al presente, recita «Capolavori dell’Italia che risorge». Insomma, furono i poeti di un’Italia che ambiva ad essere unita, mentre la Francia era diversa. Dunque il pubblico francese degli Impression­isti era più «coltivato» e più pronto a sostenere un’arte nuova, come scrisse sul Corriere Arrigo Benedetti nel 1968. Monet e gli altri si trovarono davanti una cultura meno rigida e un sistema mercantile diverso, più rodato, non come quello che — annotano Mazzocca e Matteucci — portò a una dispersion­e delle opere dei Macchiaiol­i in varie collezioni.

Fattori e gli altri però ebbero dalla loro parte questi fiancheggi­atori infaticabi­li, sostenitor­i che arrivarono a indebitars­i pur di avere in casa una delle loro opere. Per esempio Mario Borgiotti, ragazzo di bottega che lavorava presso un barbiere livornese: pagava rate settimanal­i per le tele del Bartolena (costavano dieci lire) con le mance. Dunque i Macchiaiol­i ebbero un fortissimo sostegno al di fuori della critica ufficiale, un tifo composito, che annoverava esperti e appassiona­ti, colleghi e signore dell’alta borghesia. Forse fu proprio questa consistenz­a magmatica a determinar­e un plauso mai realmente messo a fuoco nei circuiti commercial­i e mediatici. Ci furono molti appassiona­ti ma non un mercante sul modello di Paul Durand-Ruel.

Questo non è necessaria­mente un male: quella strada fatta di luce e macchie resta ancora oggi una sorgente inesauribi­le di sorprese.

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