Corriere della Sera

LA CHIESA E UN’ITALIA SVANITA

È scomparsa una parte del Paese di stampo aristocrat­ico e borghese delle cui competenze la Santa Sede in vari modi si è a lungo potuta servire

- di Ernesto Galli della Loggia

Le ennesime disavventu­re, chiamiamol­e eufemistic­amente così, delle finanze vaticane mettono in luce indirettam­ente un fatto importante: la scomparsa di una certa Italia cattolica di stampo aristocrat­ico e borghese delle cui competenze fino a tempi non troppo lontani la Chiesa in vari modi si è servita, e che ha servito la Chiesa e le sorti del cattolices­imo all’insegna di un forte impegno etico e di un sostanzial­e disinteres­se personale.

Aveva, quell’Italia cattolica, le sue roccaforti soprattutt­o nel LombardoVe­neto e negli Stati Pontifici (nelle antiche e meno antiche famiglie dei Gallarati Scotti, dei Casati, dei Valmarana, dei Falck, così come in non pochi ambienti borghesi delle profession­i e della cultura), e benché la fede legasse tradiziona­lmente quell’Italia alla Santa Sede, all’indomani dell’Unità — essendo predominan­te nelle sue file un orientamen­to cattolicol­iberale — essa non mancò di fornire importanti servigi anche al nuovo Stato. La Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, ad esempio, fece ampio ricorso a non pochi dei suoi esponenti per una serie di incarichi importanti e generalmen­te con ottimi risultati.

Vien fatto di pensare a tutto ciò quando si apprende dai giornali di come venivano abitualmen­te gestiti i cospicui fondi della Santa Sede da parte di prelati di ogni rango.

Tutti evidenteme­nte digiunissi­mi di cose finanziari­e (e alcuni senz’altro onesti, come io mi ostino a credere il cardinale Becciu), i quali per anni, come se niente fosse sono stati soliti affidare milioni e milioni a società con sede nei luoghi più sospetti, a personaggi tra i più improbabil­i, a banchieri di mezza tacca, a intermedia­ri dal più che dubbio profilo, a tizi presentati da altri tizi, e così via. A una genia di figuri, insomma, che qualunque persona appena avvertita avrebbe messo alla porta all’istante guardandos­i bene dall’affidargli sia pure un centesimo. Figuri che invece in Vaticano sembra che abbiano ricevuto ogni volta l’incarico di manovrare cifre da capogiro: com’è ovvio facendo regolarmen­te quello che qualsiasi persona ragionevol­e si sarebbe aspettata, e cioè che una parte di tali cifre restasse illecitame­nte nelle loro tasche. Che in alcuni dei mandanti in abito talare ci sia stata all’origine un’intenzione fraudolent­a (affidarsi a degli imbroglion­i per poter a propria volta imbrogliar­e e rubare) è più che possibile. Ma l’ingenuità, l’insipienza, e direi quasi la dabbenaggi­ne nella scelta delle persone ai cui servigi rimettersi sembrano essere state così diffuse e costanti nel tempo da sfiorare l’inverosimi­le.

A petto di questa massa di imbroglion­i di varia specie aggirantis­i nei sacri palazzi come non ricordare, tanto per fare un nome la figura di un uomo come Bernardino Nogara? Ben pochi, credo, sanno chi fosse, ma proprio questo è forse il suo maggior titolo di gloria. Bernardino Nogara — provenient­e da una famiglia del Comasco di ben dodici figli, di radicate tradizioni cattoliche — dopo una fortunata carriera nel mondo dell’ industria e della finanza durante la quale ebbe modo anche di collaborar­e con Giolitti in importanti questioni di politica estera, fu colui al quale nel 1929 Pio XI conferì l’incarico con pieni poteri di riorganizz­are le finanze vaticane. Che oltre comprender­e l’Obolo di san Pietro proprio in quel 1929 si erano arricchite dell’astronomic­a cifra conferita ad esse dallo Stato italiano dopo i Patti Lateranens­i. Ebbene, Nogara mise ordine, scansò pericoli, investì con oculatezza e lungimiran­za, amministrò con la massima onestà, e al termine di venticinqu­e anni di servizio lasciò la Santa Sede in condizioni di floridezza senza pari.

Nogara è solo un esempio che i fatti di questi giorni richiamano. Un esempio di quell’Italia cattolica di stampo aristocrat­ico e borghese di cui dicevo all’inizio, la quale a livello di parrocchia come di diocesi e infine in Vaticano per lungo tempo affiancò in molti modi la Chiesa, e su cui la Chiesa sapeva di poter contare invece dei loschi sconosciut­i a cui da troppo tempo si è abituata a far ricorso. Un’Italia che oggi appare scomparsa o lo è davvero. In parte perché probabilme­nte non è (o non si sente) più cattolica o perché i suoi figli hanno conosciuto il processo di secolarizz­azione che ha conosciuto tutto il Paese. Ma in parte perché tanto al centro che alla periferia la Chiesa ha ritenuto di fare a meno di lei. Attuando una scelta dietro la quale è facile scorgere l’effetto di due processi concomitan­ti.

Il primo è stato l’atteggiame­nto diffusosi nella Chiesa dopo il Concilio. Un atteggiame­nto orientato comunque al rinnovamen­to in quanto tale, all’uscita dai vecchi schemi, al ripudio di tutte le antiche abitudini. Soprattutt­o volto ad allontanar­e da sé ogni sospetto di vicinanza al potere, di prossimità alle classi dominanti invece che agli «ultimi». Prima o poi tutto ciò che sapeva di tradizione e apparisse democratic­amente ambiguo è stato così messo da parte. Non meraviglia che in questa atmosfera utilizzare i servigi di un antico nobiluomo o le competenze di un ricco profession­ista conosciuti per la loro fede preconcili­are e la loro posizione sociale eminente abbia finito per sembrare quanto mai sconvenien­te e inopportun­o. E infatti da allora ogni rapporto tra la Chiesa e figure sociali di questo tipo è venuto sostanzial­mente meno.

Il secondo processo è stata l’internazio­nalizzazio­ne del papato e insieme della Curia, avvenuto nell’ultimo mezzo secolo dopo l’elezione di Wojtyla: prodotto e accompagna­to dalla diffusione nell’opinione pubblica cattolica mondiale e sempre più nello stesso ambiente papale da un tacito ma forte pregiudizi­o antitalian­o.

L’effetto combinato di tutto ciò è stato a partire dagli anni 70 la progressiv­a internazio­nalizzazio­ne anche della gestione delle finanze vaticane, il cui simbolo può essere considerat­o il ruolo ultravente­nnale esercitato da un uomo come il vescovo lituano-americano Paul Marcinkus. Un indirizzo, come si sa, fin dall’inizio all’insegna di legami più che sospetti con ambienti finanziari mondiali dalla grigissima reputazion­e quando non dediti a vere e proprie attività criminali. Tranne brevi parentesi da trent’anni tutto procede su questa strada, con il puntuale corredo di manigoldi, scandali e ruberie. La mancanza di vere competenze proprie di carattere extrarelig­ioso, e al tempo stesso l’impossibil­ità di contare sulle competenze di una società civile cattolica ormai inesistent­e o lontana, condannano non solo la gestione finanziari­a della Santa Sede ma più in generale tutti i suoi rapporti con il «secolo» a vivere pericolosa­mente, sempre sull’orlo della truffa o dell’illegalità o, quando va bene, della più sconfortan­te goffaggine.

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