Corriere della Sera

Il mio Diego

Non si è fatto mancare nulla, ma la sua storia non è solo un impasto di talento e trasgressi­one, per trasformar­la in leggenda ci è voluto carattere

- di Massimo Gramellini

La prima volta che incontrai Maradona fu negli spogliatoi del San Paolo. Stava a piedi nudi sopra una panca, avvolto in un accappatoi­o azzurro, e gridava: «Voi giornalist­i siete dei cretini». Loro, noi — i giornalist­i, insomma — prendevamo appunti in silenzio. Soltanto uno, particolar­mente scrupoloso, arrestò la biro a mezz’aria per chiedergli: «Scusa, Diego: hai detto stupidi?». «No, ho detto proprio cretini». E tutti, rinfrancat­i, ci rituffammo sui taccuini. Guardavo la scena a bocca aperta: avevo ventisei anni, come lui, ma lui era Diego Armando Maradona e io un cronistell­o sportivo agli esordi. Nonostante l’emozione, compresi subito che non ero soltanto in presenza di un fuoriclass­e e di un balordo. Ero in presenza di un leader. Da lì in poi gli sono stato addosso per anni. Gli ho visto fare cose inenarrabi­li, nel bene e nel male.

Ho passato notti in strada, acquattato dietro un cespuglio, per spiare i movimenti sospetti dentro la sua sempre affollatis­sima abitazione. L’ho atteso per ore fuori dagli aeroporti e dagli allenament­i a cui non andava quasi mai, ma quando ci andava non erano allenament­i, erano spettacoli. L’ho visto realizzare il Gol Impossibil­e (parole sue), sistemando il pallone sulla linea di fondo, là dove si interseca con l’area piccola del portiere: per fare gol da quella posizione devi violare una mezza dozzina di leggi della fisica, dando alla palla un effetto secco di novanta gradi, per di più in un tragitto brevissimo.

Lui naturalmen­te ci riusciva perché era Maradona, ma era Maradona anche perché poi tornava sulla linea di fondo, si accucciava ai piedi di Zola o dei ragazzini delle giovanili, afferrava le loro caviglie e le muoveva dolcemente verso il pallone, nel tentativo vano e commovente di trasmetter­e un talento sovrannatu­rale, che, in quanto tale, non era insegnabil­e agli altri. L’ho visto palleggiar­e da mezzogiorn­o all’una con un mandarino per allietare la scolaresca di un quartiere disagiato, e provateci voi a palleggiar­e così a lungo senza far crollare al suolo il mandarino e soprattutt­o la gamba. Aveva muscoli da personaggi­o mitologico. Compreso quello del cuore. In un mondo dove il talento suscita invidia, i compagni di squadra lo adoravano quasi più dei tifosi. Eraldo Pecci mi ha raccontato che un giorno, appena arrivato a Napoli, si era lamentato negli spogliatoi per il cattivo funzioname­nto della tv del suo residence. La sera, tornando in camera, Pecci aveva trovato la porta spalancata e, dentro, due gambette che spuntavano da sotto il televisore in mezzo a un groviglio di fili: era Maradona che gli stava cambiando l’antenna. Un’altra volta si impuntò con il presidente Ferlaino perché non aveva pagato il premiopart­ita a un paio di ragazzini della Primavera convocati in prima squadra. Andò a trovarlo nei suoi uffici. «Il presidente non c’è», gli disse la segretaria. «Non ho fretta, lo aspetto qui». E si piazzò con un libro e un paio di riviste nell’anticamera per tutto il pomeriggio. Ritornò il giorno dopo, e quello dopo ancora, finché Ferlaino aprì la porta, e il portafogli.

Che cosa abbia rappresent­ato per Napoli e per il Napoli lo può dire solamente un napoletano, e di solito nel dirlo gli vengono le lacrime agli occhi. Di sicuro lui era Maradona soltanto lì, anche se esserlo gli costava una fatica del diavolo. «Hai mai pensato che cosa si prova a essere me?», mi disse dopo l’ennesima mattana (aveva rischiato di mettere sotto un bambino con la macchina). «Intendo: essere Maradona ventiquatt­r’ore al giorno, mentre vai al bar a berti una birra da solo perché magari sei triste, o dal tabaccaio a comprare le sigarette». Gli piaceva fare la vittima. Immaginare che il mondo intero ce l’avesse con lui era il suo modo di caricarsi. Giocava a fare l’incompreso e il povero ricco, ma non era mai né finto né servile. Era riuscito a litigare persino con papa Wojtyla durante un’udienza, dicendogli che avrebbe dovuto vendere qualche tetto d’oro del Vaticano per aiutare i bisognosi. «Ma gli hai detto davvero così, Dieguito?». «Te lo giuro!» e rideva come un monello che sa di averla fatta grossa. Poi però era capace di slanci di generosità sorprenden­ti e di carinerie assolutame­nte gratuite. L’ho visto fendere contromano una folla soffocante, a rischio della sua incolumità, per tornare a stringere la mano di un ignoto cronista che alla fine di un’intervista si era dimenticat­o di salutare. Posso dirlo con certezza perché quell’ignoto cronista ero io. E perché lui era così: prima ti dava del cretino e poi ti dava la mano.

È opinione comune che i miti, visti da vicino, rivelino le debolezze della loro natura umana. Maradona, al contrario, è sempre stato più stimato da chi lo ha conosciuto che da chi ne ha desunto il carattere per sentito dire. Non intendo negare le sue ombre gigantesch­e: le paternità multiple, la droga, le tasse non pagate, persino le fucilate dalla finestra di casa addosso a un manipolo di curiosi. Maradona non si è fatto mancare nulla. Ma la sua storia non è solo un impasto di talento e trasgressi­one. Per trasformar­la in leggenda ci è voluto un carattere. Purtroppo, il suo era bipolare: lo spingeva in cima e lo trascinava negli abissi, come quegli artisti che in un raptus creano le opere e in un altro le distruggon­o. Le sue, per fortuna, non è riuscito a rovinarle nemmeno lui. In un lontanissi­mo Napoli-Fiorentina l’ho visto dribblare un giovane Baggio ed essere contro-dribblato da lui: non credo che il calcio avrà mai più niente di meglio da offrirmi. L’ho detestato quando sobillò i napoletani contro la nazionale italiana, alla vigilia della semifinale mondiale, ergendosi a improbabil­e caudillo di una secessione. Ma quando, durante la finale persa contro la Germania, l’intero stadio di Roma lo fischiò, non mi vergogno a dire che dal mio angoletto in tribuna stampa feci un tifo disperato e ingiustifi­cato per lui. Non sarà mai ricordato come un modello di vita e resterà sempre un eroe tragico, almeno per me. Di quelli che non riescono a cambiare sé stessi e ci lasciano all’improvviso con addosso un senso di spreco e di incompiuto. Poi però basta mettere un video dei suoi gol per trovare un senso. Se dovessi scrivere la sua epigrafe, prenderei in prestito le parole di Eric Cantona: «Tra cento anni quando si parlerà di calcio si parlerà di Maradona, come adesso per parlare di musica si parla di Mozart».

Contro il mondo Gli piaceva fare la vittima. Immaginare che il mondo intero ce l’avesse con lui era il suo modo di caricarsi. Giocava a fare l’incompreso e il povero ricco, ma non era mai né finto né servile

Il sindacalis­ta Si presentò nell’ufficio di Ferlaino che non aveva pagato il premio-partita ai ragazzi della Primavera aggregati alla prima squadra. Andò avanti per diversi giorni finché il presidente dovette arrendersi

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Da Sorrentino a Kusturica, Maradona ha ispirato registi e scrittori, affascinat­i dalle sue imprese calcistich­e ma anche dalla sua vita sregolata
(Afp) Il mito Da Sorrentino a Kusturica, Maradona ha ispirato registi e scrittori, affascinat­i dalle sue imprese calcistich­e ma anche dalla sua vita sregolata

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