Maradona, il genio ribelle che giocò il calcio più bello
L’intervista testamento: «Sono stato molto felice, il calcio mi ha dato tutto»
Èmorto Diego Armando Maradona. A piangerlo s’è fermato il mondo intero. Aveva 60 anni. Chi gli è stato vicino, l’ha incontrato negli ultimi mesi e gli ha voluto bene davvero, dice che ieri è finito il suo inferno. Hanno provato a rianimarlo per un’ora, nella bella casa di Tigre, in Argentina, dove stava passando la convalescenza dopo l’intervento alla testa. Ma il cuore non ha retto.
Chi gli è stato vicino, chi l’ha incontrato negli ultimi mesi, chi gli ha voluto bene davvero, dice che ieri è finito il suo inferno, il suo tormento. Perché questo era adesso la vita di Diego Maradona. E questo era diventato lui: un uomo stanco, confuso, inquieto, svuotato, malato, ormai ostaggio dei suoi demoni e di una vergognosa faida fra clan, tutti a caccia dei suoi soldi, della sua pubblicità, dei suoi slogan. Una caduta nel vuoto cominciata anzi ricominciata due anni fa e accelerata dai troppi eccessi, a partire dall’abuso di alcol, ormai il suo avversario principale, il peggior nemico insieme agli psicofarmaci, dei quali era prigioniero.
Anche quando andava in panchina col Gimnasia, la squadra che lo aveva ingaggiato nel 2019 per rilanciare un’immagine opaca, spesso non era lucido: l’impietosa passerella alla quale lo avevano obbligato nel giorno del suo sessantesimo compleanno, il 30 ottobre scorso, aveva fatto il giro del mondo: ai limiti dell’irrispettoso, quasi ad approfittarsi della sua generosità, sconfinata almeno quanto il suo talento. Ma era troppo importante l’ostensione del mito, andava lucidato e portato in processione fino in fondo, fino alla fine, nonostante tutto, nonostante tutti.
Anche la politica ha chiesto la sua parte, con i peronisti del presidente Alberto Fernandez che ne avevano fatto un formidabile testimonial soprattutto per le classi sociali più umili, una nuova Evita, un nuovo Che. A ognuno la sua parte, indifferenti al fatto acclarato che le sue condizioni fossero preoccupanti da tempo, come tutti benissimo sapevano in Argentina. Perfino le continue rassicurazioni pubbliche successive all’intervento dello scorso 3 novembre per rimuovere un coagulo al cervello somigliavano più a una spietata operazione di marketing che a una reale ricostruzione della situazione. «Abbiamo notato nel processo di recupero postoperatorio alcuni episodi di confusione» aveva ammesso l’onnipresente dottor Leopoldo Luque, il medico personale, salvo poi aggiungere «abbiamo anche ballato insieme». La verità è che non stava più bene, Diego. Nella testa e nel corpo. L’alcol ma anche la depressione, la paura del Covid, la zoppia al ginocchio, infine l’operazione al cervello. Troppo, anche per lui.
Non era un caso che dopo l’intervento si fosse deciso di non farlo tornare nella sua casa di La Plata: troppo pericoloso restare tanto distanti dalla fidata clinica Olivos di Buenos Aires, dov’era stato operato. Il suo clan aveva così scelto di affittare una villa a Tigre, nel quartiere di San Andrès, a una quarantina di chilometri dalla capitale, in modo da poter raggiungere rapidamente l’ospedale nel caso di un peggioramento improvviso. Esattamente ciò che è avvenuto. Solo che Maradona da quella casa non è uscito vivo. Inutili i tentativi di rianimazione effettuati dal personale medico che lo accudiva ventiquattr’ore al giorno.
Se l’è portato via un arresto cardiorespiratorio, verso le 12 argentine, le 16 italiane. A nulla è servito l’intervento delle ambulanze, nove, secondo quanto riporta La Naciòn. Quando sono arrivate, a sirene spiegate, svegliando la quiete primaverile dell’esclusivo quartiere che ospita le seconde case dei ricchi della capitale, sul fiume Tigre, l’ex Pibe de Oro era già deceduto. E pensare che al mattino si era svegliato bene, aveva fatto due passi in giardino, era stato visitato dallo psichiatra e dall’infermiera e tutto sembrava più o meno a posto. Poi è tornato a letto. E non si è più svegliato, scartando il mondo con un dribbling dei suoi, insieme divino e diabolico, «portandosi per sempre via il fùtbol», come ha splendidamente scritto il Clàrin, al quale un mese fa Diego aveva affidato il suo testamento spirituale: «Sono stato molto felice, il calcio mi ha dato tutto, più di quello che ho immaginato. Senza la droga, avrei potuto giocare e vincere molto di più».
L’epilogo non ha sorpreso chi gli era davvero vicino. «Ha bisogno di aiuto da parte della sua famiglia» aveva avvertito il suo psicologo Diego Diaz due settimane fa. La sua famiglia era però ormai lontana, da tempo, insieme ai giorni felici. Morti gli amati genitori, anche i rapporti con l’ex moglie Claudia erano pessimi. Si sentivano per lo più tramite avvocati, liti e insulti via social non facevano più nemmeno notizia. E difficilissimi erano anche i rapporti con le prime due figlie, Dalma e Giannina. Un anno fa Giannina, la seconda dei cinque figli avuti da quattro donne diverse, aveva lanciato un’accusa pesantissima verso la corte di Diego: «Stanno uccidendo mio padre». Che rispose seccamente, sempre via Internet: «A te interessa solo l’eredità, ma non avrai un centesimo».
Il figlio Diego jr, avuto dalla napoletana Cristina Sinagra nel 1986, lo ha saputo dalla televisione italiana. Perfino lui ha faticato a superare la cortina di manager, avvocati e sedicenti uomini di fiducia per avere conferma certa della notizia della morte di suo padre.
Claudia, con Dalma e Giannina, sono state però le prime ad arrivare ieri nella villa di Tigre, appena l’avvocato di Diego, Matias Morla, ha confermato la notizia. L’ultimo abbraccio a un uomo e un padre troppo grande, troppo ingombrante, troppo tutto per essere solo loro, solo di una squadra, solo di un popolo, solo di un mondo.