Corriere della Sera

Le magie, il dolore

- di Walter Veltroni

Un giocatore onirico e circense. Come il suo vivere.

L’Argentina è un Paese fragile e pugnalato, con un grande orgoglio e una struggente malinconia. È piena di fantasmi e di sogni. È la terra di Borges, di Cortazar, di Bioy Casares, di Osvaldo Soriano, di Ernesto Sabato. Il realismo magico era il modo di dare forma a quest’anima sospesa tra la realtà spesso brutale e il bisogno della immaginazi­one. Maradona era un personaggi­o del realismo magico. Quello che faceva, con la testa e con i piedi, era impossibil­e. Ma era reale. Nel suo modo di giocare al pallone c’era non solo un estro magistrale ma l’orgoglio di un popolo, la totale libertà della creazione, il talento indiscipli­nato dei geni. Maradona faceva con il pallone quello che Fellini faceva con le immagini. Il suo modo di giocare al calcio era onirico e circense. Come il suo modo di vivere. Diego era insieme creazione e autodistru­zione. Viveva seguendo il filo di una sua filosofia di vita nella quale il limite, in nulla, era concepibil­e, praticabil­e o rispettabi­le. Era bizzoso come un bambino capriccios­o e sapiente come un poeta cieco. Era un festival di contraddiz­ioni e questo lo rese, da subito, una leggenda vivente. Quella leggenda ha fatto innamorare Napoli che in quel modo di interpreta­re calcio e vita si riconoscev­a pienamente. Portava con sé la luce del mito che non lo ha mai lasciato. Anche quando andò ad allenare una squadra di serie B in Messico. È sempre stato eccessivo e questo, solo questo, lo ha reso Maradona. Ma ciascuno ha sempre scorto nei suoi eccessi la verità di un misto di talento immenso e di dolore infinito. È stato uno dei più grandi calciatori della storia e un uomo fragile e libero. Non ha mai avuto paura di dire come la pensava, che parlasse di politica o dei poteri nel calcio. Ha vissuto andando sempre alla massima velocità e ha sbattuto molte volte. Maradona una volta, intervista­to da quel genio del giornalism­o pop che è stato il suo amico Gianni Minà, confessò: «L’ ho detto tante volte: non sono un santo, ma chi lo è… Mi hanno fatto passare come il cattivo del film e questo non l’ho accettato mai anche perché non ho rubato a nessuno, non ho fatto male a nessuno. Se ho fatto male, l’ho fatto a me stesso. Gianni, quando noi andiamo in campo proviamo un’allegria immensa. È difficile dirlo con parole, però il desiderio del giocatore di calcio, e io ho visto tanti giocatori, è poter dare allegria alla gente. Io avevo la grinta della fame, è vero. Dopo, quando è passata la fame, avevo la grinta della gloria. Oggi voglio avere la grinta per la vita».

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