Plasma iperimmune, appelli alla donazione Ma la scienza è divisa
La Fidas: noi ci siamo, ecco il prontuario
Si pensa al futuro. Non ci sono ancora prove scientifiche certe che il plasma iperimmune, ricavato da convalescenti infettati dal nuovo coronavirus, possa essere utilizzato, come cura, per i nuovi malati, ma la Fidas, l’Associazione italiana donatori di sangue, presieduta dall’avvocato Giovanni Musso, si sta attrezzando, con un prontuario per sensibilizzare le persone guache rite perché donino il loro plasma.
Premessa: il plasma è la parte liquida del sangue dove finiscono, nel caso di infezione come quelle da Covid, gli anticorpi prodotti dal sistema immunitario in difesa contro i virus. Le esperienze passate, per esempio nel caso della Sars (un’altra infezione respiratoria da coronavirus del 2003), avevano dimostrato può essere utile per bloccare l’infezione.
Dice Musso: «In attesa che gli studi scientifici dimostrino la reale utilità di questa cura, ci siamo messi a disposizione, forti della nostra esperienza. Anche sotto la spinta di persone, guarite da Covid, che volevano donare il plasma. Abbiamo messo a punto un prontuario (https://fidas.it/faq-donazione-plasma-iperimmune) per fornire tutte le informazioni del caso. Ma soprattutto per ribadire l’importanza della donazione, in ogni caso. Perché sangue e plasma sono “farmaci” preziosi per affrontare molte malattie, ieri come oggi».
L’associazione (ma ce ne sono altre che si stanno attivando, come l’Avis) garantisce la sicurezza delle procedure per chi dona (deve essere una persona sana, con stile di vita sano eccetera, anche per quanto riguarda i convalescenti da Covid, che vanno scelti caso per caso) per tutelare al massimo i riceventi.
Ma arriviamo alla domanda clou: questa cura funziona o no? E che cosa ci dice la letteratura scientifica, dopo l’impatto mediatico di chi la sosteneva a ogni costo nella primavera scorsa? L’ultimo lavoro, pubblicato ieri sul New
England, ci informa che non è utile in pazienti con polmonite da Covid. Ma c’è chi crede che possa valere in stadi più precoci della malattia. Anche se un altro lavoro, dell’ottobre scorso sul British Medical
Journal, la boccia.
«Il razionale per l’uso di questa terapia è solido — conferma Massimo Franchini, responsabile della Medicina trasfusionale all’Ospedale Carlo Poma di Mantova —. In laboratorio, il plasma iperimmune uccide il virus. In vivo, cioè sui pazienti, abbatte la carica virale. E non a caso ci sono 150 studi in corso per valutarne i benefici clinici».
Ci si chiede allora perché, al momento, i risultati sono così deludenti. «Probabilmente perché è stato usato un plasma “cattivo” — risponde Franchini —. E poi perché non si è valutato bene i “tempi” di somministrazione».
Per l’appunto: quando la malattia comincia a galoppare in tutto l’organismo (con la formazione di coaguli di sangue nei vasi e l’infiammazione generalizzata), bloccare il virus non serve più, né con l’antivirale Remdesivir (la cui efficacia è anch’essa appena stata messa in dubbio), né con il plasma, perché lui, il Corona, ha già provocato troppi danni.