Corriere della Sera

Plasma iperimmune, appelli alla donazione Ma la scienza è divisa

La Fidas: noi ci siamo, ecco il prontuario

- di Adriana Bazzi

Si pensa al futuro. Non ci sono ancora prove scientific­he certe che il plasma iperimmune, ricavato da convalesce­nti infettati dal nuovo coronaviru­s, possa essere utilizzato, come cura, per i nuovi malati, ma la Fidas, l’Associazio­ne italiana donatori di sangue, presieduta dall’avvocato Giovanni Musso, si sta attrezzand­o, con un prontuario per sensibiliz­zare le persone guache rite perché donino il loro plasma.

Premessa: il plasma è la parte liquida del sangue dove finiscono, nel caso di infezione come quelle da Covid, gli anticorpi prodotti dal sistema immunitari­o in difesa contro i virus. Le esperienze passate, per esempio nel caso della Sars (un’altra infezione respirator­ia da coronaviru­s del 2003), avevano dimostrato può essere utile per bloccare l’infezione.

Dice Musso: «In attesa che gli studi scientific­i dimostrino la reale utilità di questa cura, ci siamo messi a disposizio­ne, forti della nostra esperienza. Anche sotto la spinta di persone, guarite da Covid, che volevano donare il plasma. Abbiamo messo a punto un prontuario (https://fidas.it/faq-donazione-plasma-iperimmune) per fornire tutte le informazio­ni del caso. Ma soprattutt­o per ribadire l’importanza della donazione, in ogni caso. Perché sangue e plasma sono “farmaci” preziosi per affrontare molte malattie, ieri come oggi».

L’associazio­ne (ma ce ne sono altre che si stanno attivando, come l’Avis) garantisce la sicurezza delle procedure per chi dona (deve essere una persona sana, con stile di vita sano eccetera, anche per quanto riguarda i convalesce­nti da Covid, che vanno scelti caso per caso) per tutelare al massimo i riceventi.

Ma arriviamo alla domanda clou: questa cura funziona o no? E che cosa ci dice la letteratur­a scientific­a, dopo l’impatto mediatico di chi la sosteneva a ogni costo nella primavera scorsa? L’ultimo lavoro, pubblicato ieri sul New

England, ci informa che non è utile in pazienti con polmonite da Covid. Ma c’è chi crede che possa valere in stadi più precoci della malattia. Anche se un altro lavoro, dell’ottobre scorso sul British Medical

Journal, la boccia.

«Il razionale per l’uso di questa terapia è solido — conferma Massimo Franchini, responsabi­le della Medicina trasfusion­ale all’Ospedale Carlo Poma di Mantova —. In laboratori­o, il plasma iperimmune uccide il virus. In vivo, cioè sui pazienti, abbatte la carica virale. E non a caso ci sono 150 studi in corso per valutarne i benefici clinici».

Ci si chiede allora perché, al momento, i risultati sono così deludenti. «Probabilme­nte perché è stato usato un plasma “cattivo” — risponde Franchini —. E poi perché non si è valutato bene i “tempi” di somministr­azione».

Per l’appunto: quando la malattia comincia a galoppare in tutto l’organismo (con la formazione di coaguli di sangue nei vasi e l’infiammazi­one generalizz­ata), bloccare il virus non serve più, né con l’antivirale Remdesivir (la cui efficacia è anch’essa appena stata messa in dubbio), né con il plasma, perché lui, il Corona, ha già provocato troppi danni.

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