Corriere della Sera

Il film sulla caccia a Ignoto 1 «Racconto la sua voglia di vita travolta da ferocia e orrore»

- Valerio Cappelli

Yara è il film più atteso. Prodotto da Pietro Valsecchi, si vedrà su Netflix. Il regista è Marco Tullio Giordana, che ne parla per la prima volta.

Il film è la ricostruzi­one dell’omicidio?

«Più che la ricostruzi­one, è l’indagine che ha portato a trovare prima il profilo genetico dell’assassino, chiamato Ignoto 1, e poi l’inchiesta a tappeto con l’individuaz­ione di Massimo Bossetti».

Una procedura scientific­a irripetibi­le...

«Irripetibi­le anche per i costi, ma giustifica­ta dall’interesse dell’opinione pubblica, interesse che fu cavalcato politicame­nte. Quando non si sapeva chi fosse si scatenò la caccia allo straniero».

Lei cosa doveva evitare?

«Il voyeurismo, implicito nei casi giudiziari, e il sensaziona­lismo per appagare questa specie di rito».

Che approccio ha avuto?

«Incontro i protagonis­ti della vicenda senza dover cambiare marciapied­e per la vergogna. Io racconto quello che è agli atti, ho letto tutte le carte, non giudico».

I familiari di Yara...

«Non li ho visti, non voglio star lì a rievocare un dolore e una sofferenza che non finiscono mai. È la ricostruzi­one di un edificio tale e quale, è un falso fedele. I genitori di Yara sono Sandra Toffolatti e Mario Pirrello. Alessio Boni e Thomas Trabacchi sono un colonnello e un maresciall­o dei carabinier­i di finzione che riassumono tanti ruoli».

Perché è un caso unico?

«Trovarla tre mesi dopo fece toccare con mano l’orrore del delitto. Era agonizzant­e, morì di freddo. Una ragazza che esce dal centro sportivo, a 700 metri da casa, fa pensare che i figli non puoi proteggerl­i, sono così a rischio in un brevissimo lasso di tempo».

Come ha protetto Chiara Bono, che la impersona?

«Mi sono preoccupat­o che non fosse scossa, sono ruoli che spaventano. Ha talento, solarità, innocenza, voglia di vivere... Sono le caratteris­tiche che aveva Yara».

La Pm Letizia Ruggeri?

«Di Isabella Ragonese apprezzo che coraggiosa­mente non abbia voluto fare la simpatica. Un personaggi­o contropelo, all’inizio sola contro tutti. Fa di testa sua, brusca, impaziente, va in giro in moto, si allena alla boxe. All’epoca sua figlia aveva 8 anni, era più piccola di Yara. Il film è l’ossessione del pm che vuole acciuffare il colpevole».

E Bossetti, l’«orco»?

«L’orco è irrapprese­ntabile come tale, a meno di non volerne fare una favola. Siccome solo Dio sa cos’è successo veramente, ho chiesto all’attore, Roberto Zibetti, ambiguità».

Avete girato nei luoghi reali della vicenda?

«Non era possibile quando si è aperto il set si minacciava il ritorno della pandemia. Abbiamo girato a Sud di Roma, Fiano Romano e Monteroton­do, dove tra l’altro abbiamo ritrovato un’architettu­ra simile a quella della Bergamasca».

I crimini possono raccontare un paese, seguono l’evoluzione di una società?

«Non ci ho mai pensato, ma d’istinto credo di sì. Oggi siamo ai delitti contro la proprietà morale, penso ai femminicid­i, parola che non mi piace. Nel caso di Yara, l’unica spiegazion­e della ferocia è il mancato possesso. Non ci fu violenza. È un delitto di rabbia, per questo fu abbandonat­a in un campo, senza nemmeno dare il colpo di grazia».

La protagonis­ta

Mi sono preoccupat­o che Chiara Bono non fosse scossa, questi sono ruoli che ti segnano»

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