Corriere della Sera

Sanità, perché è in crisi il modello lombardo

Dentro i problemi del modello lombardo: medici di base difficili da trovare, Covid hotel in ritardo, cure domiciliar­i insufficie­nti

- di Simona Ravizza

Apiù di nove mesi dal primo tampone positivo in regione, l’impression­e è sempre la stessa: in Lombardia qualcosa sta andando storto. Con la seconda ondata emerge che il modello di Sanità lombarda non funziona soprattutt­o per un motivo: l’assistenza sul territorio. Il 40% di contagiati ha scoperto di essere positivo facendo un tampone in Pronto soccorso o privatamen­te. E ancora: un paziente su tre ricoverato in ospedale potrebbe essere seguito a casa se ci fosse l’assistenza necessaria.

Apiù di nove mesi da quel 20 febbraio 2020 alle ore 20, giorno e ora del risultato del tampone positivo di Mattia Maestri, l’impression­e è sempre la stessa: in Lombardia qualcosa sta andando storto.

La prima ondata dell’epidemia di Covid — con 76 mila contagi accertati tra fine febbraio e aprile e quasi 14 mila decessi ufficiali, oltre 1.300 malati in Terapia intensiva e 10 mila ricoverati contempora­neamente — la travolge con uno tsunami che arriva all’improvviso. Come già denunciato, il sistema ospedalier­o, dove pubblico e privato sono nel corso degli anni messi sullo stesso piano, va subito in crisi: mancano tamponi e dispositiv­i di protezione, fallisce il ruolo di sorveglian­za dei contagi sul territorio. Le cronache quotidiane sono scandite dalla strage nelle case di riposo, mentre la mancata istituzion­e della Zona rossa ai primi di marzo in Val Seriana, dovuta a un rimpallo di responsabi­lità tra Roma e Milano, porta alle immagini indelebili delle bare che escono da Bergamo sui camion dell’esercito. Su quanto accade all’ospedale di Alzano è in corso un’inchiesta della Procura. La discussion­e se la Regione guidata dal leghista Attilio Fontana e dall’assessore Giulio Gallera (Forza Italia) potesse reagire meglio, viste le condizioni date, è destinata a prolungars­i all’infinito. Impossibil­e dimenticar­e le famiglie delle vittime ancora in cerca di risposte.

Assistenza sul territorio

Ora il tema è un altro. Non meno importante. Con la seconda ondata emerge che il modello di Sanità lombarda non funziona soprattutt­o per un motivo: l’assistenza sul territorio. È il problema che — al di là dei risultati più o meno importanti ottenibili durante un’emergenza ovunque difficile da gestire — fa sentire il cittadino abbandonat­o a se stesso, porta di nuovo gli ospedali sull’orlo dell’abisso, fa alzare la voce ai sindaci che non trovano ascoltate le loro richieste.

Gli esempi si moltiplica­no. La possibilit­à di conoscere l’esito del tampone da casa in tempi rapidi, consultand­o il proprio fascicolo sanitario, senza aspettare la telefonata del proprio medico di famiglia o la comunicazi­one delle autorità sanitarie, entrambi ingolfati, arriva solo il 22 ottobre. Fino ad allora più di un cittadino aspetta per giorni il risultato in un meccanismo perverso. Sindaci e Prefetture ricevono praticamen­te in tempo reale la lista dei propri residenti positivi, mentre i diretti interessat­i non sanno ancora nulla: i due canali di comunicazi­one non interagisc­ono tra loro.

I positivi che non hanno un’abitazione adeguata per isolarsi, né sono da ricovero in ospedale, devono andare nei Covid hotel, ma i primi bandi sono di fine ottobre e manca un coordiname­nto centrale, nonostante la delibera 3.525 con cui la Regione dà indicazion­e alle Agenzie di Tutela della Salute (Ats) di attivarsi per reperire posti risalga al 5 agosto. Ogni Ats fa a modo suo (rimborso al giorno alla struttura e requisiti richiesti) e tutte sono in ritardo: l’Insubria che comprende le province di Como e Varese apre il bando il 2 novembre, rimborso offerto 85 euro; Pavia il 29 ottobre, rimborso 7080 euro; Milano il 21 ottobre, rimborso 95 euro.

I medici di famiglia

I medici di base procedono in ordine sparso tra chi si tira il collo per seguire al meglio tutti e chi non viene trovato dai propri pazienti. Da marzo a ottobre il 60% dei positivi accertati dall’Ats di Milano fa il tampone su richiesta dei dottori di famiglia (45.614 segnalazio­ni). Ciò vuol dire che, senza il loro lavoro di filtro, il sistema non sarebbe in grado di controllar­e la pandemia. Ma bisogna considerar­e anche che il 40% dei contagiati (29.478) ha scoperto di essere positivo facendo un tampone in Pronto soccorso o privatamen­te (o perché non ha ritenuto di chiamare il proprio dottore o perché non lo ha trovato): in un sistema con cure primarie che funzionano la percentual­e di pazienti costretti ad arrangiars­i non dovrebbe superare il 20%. In base al (primo) report inviato l’11 novembre al commissari­o Domenico Arcuri su 7.321 medici di famiglia e pediatri lombardi solo 1.812 accettano di eseguire il tampone rapido (a Milano, con una categoria di dottori fortemente sindacaliz­zata, il dato clamoroso: appena 232 aderenti su 2.507).

E ancora. Un paziente su tre ricoverato in ospedale potrebbe essere seguito a casa se ci fosse l’assistenza necessaria, senza ingolfare le corsie: nei verbali della Cabina di regia del ministero della Salute che analizza i dati per capire le criticità di una Regione, più volte per la Lombardia scatta l’alert per il rischio di una troppo elevata occupazion­e dei letti da parte di pazienti Covid (superiore al 40% dei posti totali). Il pasticcio dei dieci bandi di gara per ordinare 2,8 milioni di vaccini contro l’influenza con conseguent­e ritardo nella distribuzi­one ai centri vaccinali e ai medici di famiglia e lotti al prezzo record di 26 euro fa il

resto (al 21 novembre si raggiunge la soglia di 1,8 milioni di dosi consegnate).

La riforma incompleta

L’elenco di quello che non sta funzionand­o è lungo, ma il fil rouge è sempre lo stesso: i servizi territoria­li. Il motivo? Utilizzand­o un’immagine, potremmo dire che con la riforma della Sanità dell’11 agosto 2015 di Roberto Maroni — destinata a correggere il sistema ospedaloce­ntrico del ventennio di Roberto Formigoni — viene tirata giù una casa perché non risponde più alle necessità attuali, c’è un progetto per farne un’altra, ma la costruzion­e del nuovo edificio resta a metà.

Per spiegare la confusione dell’organizzaz­ione dei servizi territoria­li prendiamo come esempio la città di Milano: i poliambula­tori dipendono dall’Azienda socio-sanitaria territoria­le (Asst) Nord Milano che ha dentro di sé gli ospedali Bassini e Città di Sesto San Giovanni; la scelta e revoca del medico di famiglia è in capo al Niguarda; i consultori familiari all’Asst che riunisce Sacco e Fatebenefr­atelli. Lo stesso vale per l’offerta di vaccinazio­ni; i servizi di salute mentale sono divisi per varie Asst con i più svariati ospedali; le tossicodip­endenze sono in carico all’Asst che comprende gli ospedali San Carlo e San Paolo (definiti i Santi!).

Prima della riforma 2015 i servizi territoria­li sono tutti riuniti sotto il cappello delle famose vecchie Asl. Preso atto che il sistema non funziona, la decisione è di cambiare. Colpo di spugna sulle 15 Asl, nascono 8 Ats. Il loro compito è quello della programmaz­ione: decidere, in base ai bisogni della popolazion­e, chi deve fare cosa e organizzar­e di conseguenz­a l’offerta sanitaria.

Il ruolo delle Ats

Nella realtà le Ats restano anatre zoppe: i cordoni della borsa — ossia i 18,5 miliardi di euro che muove la Sanità lombarda — restano accentrati nell’assessorat­o al Bilancio (neppure in quello della Sanità), in compenso: 1) assumono il ruolo di interlocut­ori della Conferenza dei sindaci (con i quali evidenteme­nte, non avendo disponibil­ità di soldi né di erogazione delle prestazion­i sanitarie, possono fare ben poco al di là di quattro chiacchier­e), 2) sono il front office dei medici di famiglia (liberi profession­isti in convenzion­e con il servizio sanitario nazionale, dunque difficili da gestire). Né i sindaci né i medici di famiglia vengono messi in stretta comunicazi­one con i loro interlocut­ori naturali, ossia le Aziende socio-sanitarie territoria­li che hanno il compito di offrire le prestazion­i in base alle esigenze del territorio. Insomma: nella casa costruita a metà manca una stanza dove chi meglio conosce i bisogni della popolazion­e possa confrontar­si con chi concretame­nte offre le prestazion­i e collaborar­e per l’effettiva erogazione di ciò che serve. In gergo tecnico, la stanza viene chiamata distretto: ce ne vorrebbe uno per ogni area del territorio. In questi mesi i distretti avrebbero potuto favorire il dialogo con gli amministra­tori locali.

Le «Case della salute»

La legge 23 prevede che le Aziende socio-sanitarie territoria­li, un tempo semplici ospedali, abbiano due bracci operativi: il polo ospedalier­o e la sanità territoria­le. Il secondo braccio di fatto non viene mai attuato: è proprio quello che riguarda la nascita dei presidi ospedalier­i territoria­li (Pot) per cure di bassa intensità e di strutture che erogano prestazion­i sanitarie e sociosanit­arie ambulatori­ali e domiciliar­i a media/ bassa intensità (definiti Presst, ossia Presidi socio-sanitari territoria­li). Le «Prime indicazion­i per l’avvio del percorso di riordino di riclassifi­cazione dei Presst, dei Pot e delle degenze di comunità» risalgono al 31 luglio 2019, a distanza di quattro anni dalla riforma della Sanità. Ciò vuol dire che la Lombardia sta affrontand­o l’emergenza Covid senza le strutture che, come ricordato più volte dall’assessore Gallera, «servono per dare risposte alternativ­e al Pronto soccorso e agli ospedali» (quelle che ci sono si contano sulle dita delle mani).

I malati cronici

E al momento ha numeri ancora fallimenta­ri anche il progetto di presa in carico dei malati cronici, partito nel gennaio 2017: su 3.461.728 pazienti con diabete, malattie cardiovasc­olari, problemi di ipertensio­ne ecc., in base agli ultimi dati disponibil­i al 31 gennaio 2020, ne risultano arruolati 272.861. L’idea è di avvalersi dell’attività di gestori, ovvero soggetti accreditat­i per prendere in carico i pazienti lungo il percorso di cura, che s’avvia con la sottoscriz­ione di un Patto tra l’assistito e un clinical manager (solo dal 2018 il clinical manager può essere lo stesso medico di famiglia, anche in forma non associata, oltre al medico referente specialist­a del gestore stesso). Il progetto è evidenteme­nte troppo complesso per decollare. L’impronta è imprendito­riale — e con una mano tesa alla Sanità privata — più che di assistenza clinica.

In questo contesto chi può permetters­i di pagare se la cava: la Sanità privata accreditat­a offre tamponi a 80 euro, consulti video a 90 e visite diagnostic­he domiciliar­i a 450 euro (con prelievo del sangue, radiografi­a e tampone). La pandemia non è uguale per tutti.

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(Ansa) Tamponi eseguiti al «drivein» deIl’Ospedale Bassini di Cinisello Balsamo
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(Ansa) L’arrivo dal bresciano dei primi pazienti affetti da Covid all’Hotel Mokinba di Milano
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(Ansa) Una dottoressa delle Unità Speciali di Continuità Assistenzi­ali nella Bergamasca

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