Corriere della Sera

L’ITALIA È A UN BIVIO IN EUROPA

- di Federico Fubini

A volte bastano certi dettagli a intuire quanto sia in movimento il contesto intorno a noi. Nella prima metà dell’anno l’Italia ha perso appena un po’ più di occupati rispetto ai Paesi che ci circondano: meno 2,96% contro un calo di 2,83% nell’Unione Europea, secondo Eurostat. A prima vista poteva andare molto peggio, perché una crisi di questo tipo specifico paralizza soprattutt­o certi settori vitali per un Paese molto forte nelle attività del turismo e degli stili di vita. Era inevitabil­e che l’Italia, la Spagna o la Grecia soffrisser­o la recessione da Covid più della media. Non appena si guarda dentro ai dati viene fuori però un quadro diverso. Nei settori devastati da Covid come i tour operator, gli hotel, i ristoranti o i caffè, durante la prima ondata del virus (i primi sei mesi dell’anno), l’occupazion­e in Italia è scesa molto meno che nel resto d’Europa. Quel che aiuta a spiegare la risposta più debole dell’Italia in termini di occupazion­e, malgrado le decine di miliardi spesi a raffica per congelare nella cassa integrazio­ne i posti di milioni di persone, è che abbiamo mancato la pars construens. Ci sono attività che quest’anno sono esplose perché tutti o quasi ne hanno avuto bisogno: i servizi digitali hanno visto l’occupazion­e crescere del 17% in Europa (600 mila persone in più), ma restare ferma in Italia; l’industria farmaceuti­ca registra un aumento degli occupati del 10% in Europa e un calo dell’11% in Italia; gli uffici privati di collocamen­to riducono a doppia cifra la percentual­e degli addetti in Italia, eppure li aumentano in Europa.

In altri termini, in piena pandemia abbiamo speso decine di miliardi per arroccarci a difesa dell’esistente di ieri ma non abbiamo colto le opportunit­à dell’oggi. Si chiama sclerosi. È esattament­e quel che non possiamo permetterc­i se si guarda al domani.

A maggior ragione non possiamo, perché non è un quadro coerente questo. È un paesaggio colpito da un meteorite, tipico degli sconvolgim­enti che ormai ci sta riservando a ripetizion­e un sistema globale interconne­sso, efficiente, poderoso e per ciò stesso capace di propagare anche ciò che va storto in ogni singolo Paese. Ormai è chiaro che il passaggio di un virus da un animale a un uomo alla periferia di una città cinese in un giorno del 2019 sta portando in Italia conseguenz­e sociali, economiche e alla lunga anche politiche di cui abbiamo visto appena il prologo. Suo malgrado, il Paese si avvia a vivere uno dei momenti più carichi di trasformaz­ioni degli ultimi 75 anni.

Questa però non è la replica della Grande recessione del 2008-2013, non necessaria­mente. Non sta scritto da nessuna parte che il finale della storia, sul piano economico e sociale, debba essere ancora una volta così negativo. In quella fase l’Italia cadde in trappola più di quasi tutti gli altri Paesi europei e ne riemerse dopo, più lentamente e più debole. Stavolta invece la situazione è diversa, più ambigua, perché l’intera comunità nazionale si trova davanti a due strade e non è chiaro quale imboccherà. Il primo percorso porta all’esacerbars­i dei problemi che ci tormentano da decenni: il debito pubblico, lo Stato inefficien­te, l’innovazion­e e la conoscenza poco diffuse e ancor meno rispettate, le imprese a volte incredibil­mente dinamiche ma incapaci di crescere oltre certi limiti che le rendono vasi di coccio nel mondo.

La seconda strada invece porta in direzione opposta e la novità è che, a priori, oggi non è sbarrata: si intravedon­o condizioni per risollevar­e il Paese che dieci anni fa non c’erano. Impossibil­e è piuttosto la soluzione di mezzo, l’idea di riprendere tra qualche mese il lento trasciname­nto di prima: come se nel frattempo non ci fosse stata la pandemia, come se la spesa pubblica e il debito non fossero esplosi e il reddito non fosse crollato; come se Covid-19 non avesse messo a nudo il grottesco livello di disfunzion­e dei poteri pubblici e di diseguagli­anza nella società tra garantiti e no, tra i giovani e gli altri, tra i territori, tra le donne e gli uomini nei sistemi del lavoro. Cercare di congelare il mondo di prima significhe­rebbe scegliere la strada dell’avvitament­o, magari lento all’inizio ma poi all’improvviso inarrestab­ile.

E non ci sono scuse perché adesso, una dopo l’altra, una serie di precondizi­oni per imboccare la via migliore stanno andando a posto. I vaccini permettera­nno un graduale ritorno alla normalità durante il 2021. Sul piano internazio­nale l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca sfebbra le relazioni fra potenze commercial­i e offre all’Italia l’occasione di mettersi all’intersezio­ne di tutti i giochi, perché il governo nel 2021 avrà la presidenza del G20 e la copresiden­za di Cop26, l’evento delle Nazioni Unite sul clima proprio nell’anno in cui gli Stati Uniti tornano negli Accordi di Parigi per la riduzione delle emissioni. Quanto all’Europa, possiamo contare sul sostegno della banca centrale e sul fatto che per più di un anno non ci sarà pressione per stringere sui conti pubblici.

Poi naturalmen­te c’è il Recovery plan, 209 miliardi per ricostruir­e il Paese in sei anni. I timori e il fastidio per eventuali ritardi dell’Italia non hanno alcun fondamento nel calendario europeo, perché per ora solo il Portogallo ha presentato in via definitiva il suo programma nazionale. Hanno invece molto fondamento nell’evidente paralisi di un governo che fatica persino a trovare un manager per la sanità in Calabria. La stessa segretezza imposta su tutti i progetti dal presidente del Consiglio non fa che alimentare la sfiducia e irritare gli alleati — Francia inclusa — che si sono molto esposti per l’Italia negli ultimi mesi. La verità è invece che ogni settimana gli uffici del governo lavorano con Bruxelles sulle componenti specifiche del Recovery plan e sarebbe ora di mostrare con trasparenz­a che si sta facendo sul serio.

L’alternativ­a dunque è questa: aggrappare gli appigli che ci portano sulla via alta fuori da questa crisi, oppure affondare nella via bassa verso l’avvitament­o. Quest’ultima è popolata di politici di governo e maggioranz­a che blaterano di «cancellazi­oni» del debito, senza capire che ciò significhe­rebbe devastare il sistema finanziari­o e colpire le famiglie che possiedono quei titoli di Stato; senza pensare che l’effetto per il resto sarebbe nullo dato che il debito comprato dalla banca centrale di fatto non pesa per il governo: il Tesoro recupera ogni anno come dividendi della Banca d’Italia gli interessi passivi che ha versato su quei bond. Ma forse il problema è proprio questo. Avere nei ceti dirigenti persone che non capiscono queste cose.

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