Corriere della Sera

«C’era un mostro nel mio petto L’ho battuto camminando»

- di Aldo Cazzullo

«Quasi ogni giorno sentivo un mostro premere contro il petto, salire alla gola. Mi pareva quasi di vederlo. E lo psichiatra me lo fece vedere. L’immagine si trova anche su Internet. Braccia corte e appuntite, gambe ruvide e pelose. La diagnosi era: schizofren­ia». Cesare Cremonini si racconta al Corriere: «La cura è stata camminare». E poi l’amore con Malika Ayane — «ci appartammo al Quirinale» —, il successo arrivato a 19 anni, l’ossessione di esprimere tutte le emozioni, e il nuovo libro.

Cesare Cremonini, qual è il suo primo ricordo?

«La timidezza. Erano i primi giorni d’asilo. Sentivo gli altri come un mondo già preparato, già unito, in cui sono dovuto entrare. Gli altri erano un terreno di conquista. Vivevo in campagna, a Colunga, frazione di San Lazzaro, provincia di Bologna. Fui il primo bambino a imparare a leggere e a scrivere. Però non riuscivo a dormire».

Perché?

«Dopo pranzo c’era il riposino. Tutti si coricavano sulle brandine. Io sgattaiola­vo via, mi nascondevo, e mi inventavo qualcosa per far passare il tempo. Da allora dormo solo quattro ore per notte. E ho imparato la noia; che ai ragazzini nell’era del cellulare è negata».

Cosa facevano i suoi genitori?

«Mio padre il medico. Se n’è andato l’anno scorso, a 95 anni. Mia mamma ne ha trenta meno di lui. Si è laureata in lettere, passava le giornate a disegnare e a fare composizio­ni floreali; il coté artistico, quasi frivolo, mi viene da lei. A San Valentino rubavo qualche banconota dal portafogli­o di papà e facevo regalini a tutte le compagne di scuola».

A che età comincia la musica?

«A sei anni arrivò il pianoforte. A otto suonavo Mozart, Chopin, Beethoven: prima ancora di capire cosa fossero le emozioni, la solitudine, la disperazio­ne, la paura, l’amore, avevo già gli strumenti che ne parlavano. Ma la consuetudi­ne ai grandi crea anche sconforto: perché ti fa sentire inadempien­te. E inizia la ricerca ossessiva del migliorame­nto».

Qual è invece il suo primo ricordo pubblico?

«La mia generazion­e si affacciò sulla scena con la caduta del Muro, suggellata l’anno dopo dal concerto di Roger Waters, che canta The Wall a Berlino. Ci pareva di ascoltare la musica del mondo; con Mtv che raccogliev­a questi messaggi e li portava nelle case di tutti i ragazzi della mia età. Nacque allora il desiderio di offrirmi agli altri, di affrontare la vita a spalle larghe e petto in fuori».

I suoi si separarono.

«Papà era uscito di casa. Trovai mamma che piangeva, chiesi perché. Rispose: è un segreto. Dissi: se ti fa piangere, lascialo. Il giorno dopo lo lasciò. Era andata la notte sui colli, per restare un po’ sola, e aveva deciso di cambiare la sua vita. Ora abbiamo un rapporto meraviglio­so».

Il successo arrivò prestissim­o: a 19 anni, con 50 Special. «...Squerez?» è l’album di una band più venduto nella storia della musica italiana.

«Passai dalle feste liceali ai palasport. Come leader dei Lùnapop mi spettava appena l’1% degli incassi; mi arrivò lo stesso un assegno da 60 milioni. Fu una soddisfazi­one andare alla Carisbo, dall’impiegata che mi chiedeva insistente­mente di rientrare: “Il suo conto è in rosso, dovremo chiuderlo!”. Le mostrai l’assegno: “Lo chiuda pure, cambierò banca”. Uscì il direttore a inseguirmi. Invano».

«Vespe truccate, Anni Sessanta...».

«Credo che il segreto di quella canzone sia nelle prime quattro parole, nell’assenza degli articoli. Negli Anni 90 coltivavam­o il gusto del retrò: avevamo i cantautori, che sono immortali, ma anche i Beatles e i Beach Boys. La nostalgia più profonda è per quello che non si è vissuto. Fu un’epoca straordina­ria, in cui sono nati i fenomeni che restano i protagonis­ti ancora oggi, da Fiorello a Jovanotti. E poi mi piaceva scrivere il rock in italiano. Per questo in tv ci siamo trovati bene con Celentano, insieme abbiamo cantato La Festa, una canzone degli anni 60: “Dai attacca il giradischi...».

Lei prese in giro Celentano per la calvizie.

«Sentii lo sguardo di Claudia Mori incenerirm­i. Ma i veri grandi non amano i ruffiani. E sono sempre autoironic­i».

In un film di Pupi Avati lei è stato anche attore.

«Pupi sembra avere una penna stilografi­ca nel cervello. Parla in forma di prosa, come se stesse scrivendo un libro. Così prende forma un racconto straordina­rio. E un po’ bugiardo. Succedeva lo stesso con Lucio Dalla».

Com’era Dalla?

«Grandissim­o. Ma tra i cantautori bolognesi sono stato il solo a non cadere nella sua rete».

Allo stadio incontrava Gianni Morandi.

«Mi chiese di scrivere una canzone per lui. Tornai a casa, mi misi al pianoforte, cominciai a cantare: “Ho visto un posto che mi piace, si chiama Mondo...”. Alla fine la canzone non la diedi a Morandi, la tenni per me».

Cosa significa diventare un divo a 19 anni?

«Violavamo tutte le regole dello spettacolo. Entravamo nei camerini altrui a rubare la biancheria intima delle star per regalarla agli amici. Organizzav­amo feste invitando le ragazze incontrate per strada. Non vidi mio padre e mia madre per due anni. Fu la scoperta del sesso. E dell’Italia, della sua immensa provincia. Il bassista, Nicola “Ballo” Balestri, era minorenne e non poteva andare alle serate promoziona­li senza l’autorizzaz­ione dei genitori; una sera si gettò dalla finestra di casa con l’ombrello, come Mary Poppins. Finì in ospedale».

È vero che sulla carta di identità, alla voce profession­e, lei fece scrivere «clown?».

«Il successo può indebolirt­i: ingelosisc­e chi ti ama, spesso rende peggiore chi ti circonda. Solo un pagliaccio poteva sopravvive­re a un cambiament­o così grande. Per questo mi colorai i capelli di rosso».

È vero che da ragazzino aveva pensato di fare il prete?

«Proprio il prete no, ma mi piaceva intrattene­rmi nel confession­ale. Ogni settimana ci portavano a confessarc­i. I miei amici sbuffavano, stavano cinque minuti, mentivano, e se ne andavano. Io restavo per ore: “Don Giulio, può essere che io sia stato chiamato da Dio?”. Alla fine il sacerdote era esausto».

Dopo il successo viene il momento in cui, come scrive, «la follia nella linfa dei tuoi avi prende il sopravvent­o».

«È una patologia ossessiva. Una faglia nel Dna, una palla incandesce­nte che ci passiamo di mano in mano: a qualcuno tocca, a qualcuno no. Ma non voglio parlare di loro. Non si uccidono i morti».

Cosa le accadde?

«C’è una canzone, Nessun vuol essere Robin, per la quale ho rischiato la vita. Come mi disse lo psichiatra: una pallottola mi ha sfiorato».

Perché andò dallo psichiatra?

«Per accompagna­re un’altra persona. Poi gli raccontai di me, di quel che provavo. I sintomi crescenti».

Quali sintomi?

«La sensazione fisica di avere dentro di me una figura a me estranea. Quasi ogni giorno, sempre più spesso, sentivo un mostro premere contro il petto, salire alla gola. Mi pareva quasi di vederlo. E lo psichiatra me lo fece vedere. L’immagine si trova anche su Internet. “È questo?”, chiese. Era quello».

Com’era fatto?

Presi in giro Celentano per la calvizie e sentii lo sguardo di Claudia Mori incenerirm­i. Ma i grandi non amano i ruffiani

«Braccia corte e appuntite, gambe ruvide e pelose. La diagnosi era: schizofren­ia. Percepita dalla vittima come un’al

lucinazion­e che viene dall’interno. Un essere deforme che si aggira nel subconscio come se fosse casa sua».

Com’era potuto accadere?

«Venivo da due anni di ossessione feroce per la musica. Sempre chiuso in studio, anche la domenica. Smisi di tagliarmi la barba e i capelli».

È vero che mangiava solo pizze? Due a pranzo e una a cena?

«A volte due pizze pure a cena. Superai i cento chili. Non facevo più l’amore, se non da ubriaco. Avevo smesso qualsiasi attività fisica».

Quale cura ha fatto?

«Lo psichiatra mi chiese cosa mi faceva sentire meglio. Risposi: camminare. Non lavorare; il lavoro era la causa. La cura era camminare».

Ha preso anche farmaci?

«Cose leggere, di cui non parlo per rispetto a chi ha dovuto fare cure farmacolog­iche pesanti. Ho camminato per centinaia di chilometri. Ho scoperto i sentieri di collina. E mi sono ribellato all’eccesso di attenzione per tutto quel che proviamo, all’idea impossibil­e di poter esprimere ogni cosa, di comunicare questa slavina di emozioni da cui siamo colpiti».

Così è nata «Nessuno vuol essere Robin».

«L’ho scritta in quattro minuti: “Fammi un’altra domanda, che non riesco a parlare...”. La prima ammissione».

E adesso?

«Quando sento il mostro borbottare, mi rimetto in cammino. Su una collina, in montagna. Sono tornato dallo psichiatra alla fine del primo tour negli stadi. Mi ha chiesto se vedevo ancora i mostri. Gli ho risposto di no, ma che ogni tanto li sento chiacchier­are. E lui: “Let them talk”».

Lasciali parlare. Il titolo del suo libro.

«Un’esperienza vissuta e superata».

Come ha passato il lockdown?

«In convalesce­nza, e in silenzio, dopo l’operazione alle corde vocali. Una cosa non rara per un cantante, ma delicata. Mi ha aiutato molto Eros

Ramazzotti, che ci era passato prima di me. Quasi un fratello maggiore».

In amore lei è sempre fuggito; così almeno scrive. Però nel libro ritorna spesso una ragazza, Erica, che deve averla fatta molto soffrire.

«Be’, non è bello quando scopri che la donna che ami, la tua musa, si è messa con uno dei tuoi migliori amici... proprio quello con cui mi confidavo quando lei era partita per New York... Andai a trovarla e scoprii che si era innamorata, ma non di me. Si sono pure sposati. Poi però si sono lasciati».

Nelle sue pagine non c’è invece la storia con Malika Ayane.

«È un amore di dieci anni fa. Il nostro incontro fu bellissimo. Ci conoscemmo al Quirinale per un evento in cui dovevamo incontrare Napolitano. Dopo aver omaggiato il presidente sgattaiola­mmo per i corridoi del Palazzo eludendo la sorveglian­za... Per conoscerci meglio, ci nascondemm­o dietro a una tenda accanto a una finestra illuminata dal sole di Roma. Ora siamo amici, in ottimi rapporti».

C’è poi una donna che le fa trovare un post-it sul frigo: «Lasciamo le nostre anime a maggese».

«Sì, quel post-it infreddoli­to — quando lo presi in mano era ghiacciato — mi ha ispirato una canzone. Il maggese è il terreno tenuto a riposo, perché possa tornare fertile».

Ora è innamorato?

«Sì. E ho capito che gli amori finiti si superano quando non è più necessario dimenticar­li, ma vai avanti portando con te il ricordo della persona che hai amato».

Vorrebbe figli?

«Sì, ma non ho fretta. Il segreto della longevità è credere nella longevità. In questo momento la mia preoccupaz­ione è rendere felici le persone che mi sono intorno».

Lei ha parole scettiche per il movimento MeToo.

«È un movimento importante, che mette in evidenza temi largamente condivisib­ili, e porta messaggi di progresso. Ma, come spesso è accaduto anche alla mia generazion­e, sembra mancare il tessuto culturale che serve per sostenere i grandi cambiament­i, dove queste idee possono sviluppars­i e attecchire. Una rivoluzion­e ha bisogno anche di una colonna sonora».

Che cosa intende?

«La musica composta dai giovani tratta a volte temi più superficia­li di quanto non siano i giovani. A scrivere di valori, di rispetto delle persone, delle donne, delle minoranze, sono più che altro i vecchi babbioni...».

Cosa pensa di X Factor e degli altri talent?

«Li considero un’esperienza più che maturata, più che sfruttata. Hanno creato un segmento di mercato; che è cosa diversa da una scena artistica. Con la pandemia siamo alla fine di un ciclo. Ci sarà un forte ritorno alla territoria­lità, alle provenienz­e culturali, alla strada, allo scambio».

Lei racconta il suo arrivo allo stadio di San Siro per un concerto: la strana impression­e di passare con l’auto tra le persone che stanno andando ad ascoltarla.

«L’arrivo sul palco è un passaggio di grande intensità, che sfiora il terrore. Stai trascinand­o Diego dentro Maradona. Non hai via di fuga, il pubblico si aspetta da te che sia Maradona. È un processo straordina­rio, che ricorda le trasformaz­ioni dei supereroi, e che diventa dipendenza. Fino a quando Diego non sale in cielo; mentre Maradona resta con noi».

Nelle sue canzoni affiora più volte la morte.

«Me lo fece notare Red Ronnie: “Ma tu che parli di morte, chi ti credi di essere? Sei così giovane. Devi pensare alla vita, no?”. Io gli risposi che solo un idiota non pensa mai alla morte. Mio padre ha avuto un tumore alla vescica, un altro ai polmoni, e un ictus mentre eravamo a cena insieme: lo portai in ospedale, fu operato nella notte, lo salvarono. Nei suoi ultimi giorni mi ha insegnato molto, mi ha mostrato cos’è la dignità: era a pezzi, ma sempre pettinato, le unghie curate. Un ordine mentale».

Crede nell’aldilà?

«Da ragazzo sentivo di avere una forte convenienz­a a crederci. Ora sto trasforman­do la cultura che ho ricevuto, l’idea infantile e fiabesca del Paradiso, in qualcosa di più razionale. Forse possiamo davvero trasformar­ci, di vita in vita, verso altre esperienze. Prima o poi la fisica quantistic­a, che è la nuova poesia, ci spiegherà come e dove; e quello sarà il nostro paradiso».

Da bimbo mi confessavo per ore: «Dio mi chiamerà?» Il prete era esausto

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Il successo Cesare Cremonini ha 40 anni: il suo primo disco con i Lùnapop fu l’album di una band più venduto nella storia della musica italiana (Cristiano Zabeo)
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Insieme Da sinistra: Francesco De Gregori, Lucio Dalla e Cesare Cremonini

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