Diventare grande (in tempi difficili)
Mattia, nel futuro, ricorda i suoi 9 anni compiuti in lockdown Massimo Gramellini torna al romanzo. E ci racconta, dal 2080
«La mamma mi scaricò un videogioco in cui potevi costruire la città dei tuoi sogni: nella mia abolii cimiteri e ospedali». A parlare è Mattia, protagonista del nuovo romanzo di Massimo Gramellini, C’era una volta adesso (Longanesi). Mattia oggi adulto — siamo nel 2080 — ricorda il 2020, l’anno in cui è arrivata la pandemia. Mattia ha 9 anni, una sorella, Rossana, di 16 (figlia di un padre diverso). Una madre, Tania, e un padre, Andrea, separati da tempo. Una nonna che vive al piano di sopra, e un universo di fantasia oltre la porta della cameretta: un puff parlante, un registratore, l’Orecchione, il binocolo per guardare le stelle, un gatto che sembra fatto della sua stessa materia — timidezza e timore. Perché Mattia non si sente a suo agio nel mondo fuori, che sia la scuola, o il cortile di casa dove il vicino, Giulio Mauro, lo sottopone alle peggiori angherie come buttare nella tazza del bagno il pesce rosso. Ma a far parte del fuori, di quel consorzio umano sconosciuto e imprevedibile, per Mattia c’è in particolare il padre. Assente, distratto, «indeciso a tutto — lo descrive il bambino —, rappresentava quanto di più lontano potesse esserci dalla mia idea di supereroe. E io, di supereroi, ne avevo un bisogno disperato».
Dunque: che succede se il mondo si capovolge? Se la dimensione rassicurante della cameretta sostituisce quella incerta dell’esterno, se il luogo del rifugio diventa quello della vita quotidiana? Pochi giorni dopo il compleanno di Mattia, inizia il lockdown. E il padre, di passaggio a Milano, è costretto a restare. Genitori e figli si ritrovano insieme nella stessa casa come una famiglia vera. Senza possibilità di fuga, di distrazione, e neppure di respiro. Una casa di ringhiera che, attraverso il ballatoio, diventa un microcosmo. E così quelli che per Mattia erano stati figuranti, persone che incontrava sulle scale, ora diventano protagonisti. In particolare il «cattivo», il più cattivo di tutti, diventa altro: aiutante, eroe. Questa è la storia di un padre e di un figlio che si scoprono. E al contempo la storia di tutti noi che, visti da una distanza nuova — ravvicinata — riveliamo un volto diverso. Migliore o peggiore: vedi il dirimpettaio, il padre di Giulio Mauro, fin lì irreprensibile, tanto diverso dal suo di padre, ha sempre pensato Mattia guardandolo prima, non adesso: adesso proprio suo padre, quello manchevole, infantile, si rivela migliore. Quel padre che inventa un universo parallelo per rendergli tollerabile il momento. D’un tratto, in questa realtà ribaltata cambia il profilo del supereroe — del resto: non è forse questo crescere? Misurarsi con l’esistente e non con l’ideale?
Torna il Gramellini di Fai bei sogni. Torna la fantasia — la favola — come antidoto al dolore.
Torna l’idea del diventare grandi come trauma necessario. Far coincidere questo passaggio, la perdita del sé bambino, con un’ulteriore perdita circoscrive la sofferenza, rendendola sì tragica eppure naturale.
Lasciare il racconto dell’indicibile ai bambini, trattare l’inspiegabile come l’età adulta a venire si trasforma nella spiegazione più potente.
Esattamente come Jonathan Safran Foer in Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda), che affida il racconto dell’11 Settembre, l’elaborazione del lutto, al piccolo Oskar, Gramellini — in questa distopia alla rovescia — confina l’ignoto, equiparando
ciò che stiamo vivendo alla crescita.
E esattamente come Oskar, Mattia ritrova il padre — dove lì era un ritrovamento interiore, qui fattuale.
Romanzo dopo romanzo, Gramellini narra la famiglia italiana, registrandone i cambiamenti. E se il bambino di Fai bei sogni ha 9 anni come Mattia, di sicuro la sua è un’infanzia diversa, come lo sono gli adulti intorno.
Se un tempo — pare documentare l’autore — il non detto, i misteri di famiglia erano fondanti e ben difesi (con un disvelamento tardivo che spostava il momento della caduta del padre e della madre), oggi (che poi è il passato del romanzo), questo oggi è popolato da bambini consapevoli al cospetto di adulti dichiaratamente fragili, fragilissimi, che non fanno nulla per camuffarsi. Cosa che richiede uno sforzo maggiore da parte dei figli costretti a trovare al più presto punti cardinali.
Ecco allora Mattia in viaggio nella città (viaggio metaforico come quello dell’eroe citato dall’autore). Nella sua città ideale da cui elimina cimiteri e ospedali, Mattia incontra il non supereroe. Ed è una scoperta, il superamento dell’ideale, dove la città stessa, senza cimiteri e ospedali, è un ideale da travalicare. Che non sia possibile una città senza morte spetta a noi capirlo (qui l’invenzione più struggente del romanzo, questo parlarsi dal futuro). Non è compito di madri, di padri. Si tratta di un confronto tutto interiore. Così la voce narrante del romanzo, il sé anziano rassicura il sé bambino. Nel momento in cui Mattia sembra aver perso ogni cosa, incluso il padre costretto a ripartire, ebbene l’autore dal 2080 interviene: «Ci piacerebbe entrare nella sua storia per sussurrargli che non è finita».
Gramellini, lo scrittore che maggiormente in questi anni è riuscito a cogliere il bilico minaccioso e elettrizzante che è il passaggio all’età adulta, torna a dirci che non siamo soli neppure stavolta. Questo 2020, questo non sapere corrisponde alla dimensione dell’infanzia, allo sguardo del bambino sul futuro.
Poetico, doloroso, pieno di speranza, rivelatorio, intimista, sentimentale (in modo sorprendente), C’era una volta adesso possiede la tenerezza con cui noi, solo noi, siamo in grado di proteggere la nostra parte impaurita. Perché solo noi possiamo tornare indietro a avvisarci che passerà. Il mondo nuovo è in arrivo.
Libro dopo libro, Gramellini narra la famiglia italiana, registrandone i cambiamenti. Il presente è fatto di adulti dichiaratamente fragili