Corriere della Sera

La legge (giusta) che spaccò il nostro Paese

La norma spaccò il Paese e provocò una rivoluzion­e dei costumi

- di Gian Antonio Stella

C inquant’ anni fa il via libera alla legge Fortuna Baslini che aprì al divorzio dividendo e cambiando per sempre l’Italia.

«Gira e riggira, er mezzo più mijore / è forse quello de spaccaje er core». Gela il sangue rileggere oggi, a cinquant’anni esatti dall’approvazio­ne alla Camera dopo una seduta fiume della legge Fortuna-Baslini che apriva finalmente al divorzio, la poesia di Trilussa intitolata «Un punto d’onore». Dove Carlo Alberto Salustri coglieva con amarissimo sarcasmo, agli esordi del Novecento, l’ipocrisia tra l’ostilità assoluta verso il divorzio (proposto la prima volta nel 1878 dal deputato Salvatore Morelli, incenerito subito da una vignetta che lo vedeva circondato da donne in giacca, cravatta, sigaro e cilindro) e la comprensio­ne (meglio: complicità) verso gli assassini «per onore». «È provato, defatti, che la gente», proseguiva il poeta, «nun vô er divorzio e dice ch’è immorale: / ma appena legge un dramma coniugale / s’associa cór marito delinquent­e, / che in fonno fa er divorzio a l’improviso / perché manna la moje in Paradiso...».

Certo, i fatti dimostrano anche in questi giorni di ripetuti femminicid­i che il passaggio epocale del divorzio non ha magicament­e risolto tutti i problemi. Magari! Occorre però ricordarsi come andava «prima» per capire perché l’approvazio­ne della legge presentata nell’ottobre del ‘65 fu così tormentata, così a lungo avversata («Dichiariam­o che il divorzio è un attentato contro Dio e contro il Paese!», tuonava nei cinematogr­afi padre Tondi) e infine così benedetta dopo il voto finale da cori entusiasti­ci e da un cartello dei Radicali: «Argentina Marchei ha vinto, Paolo VI ha perso».

Aveva ottant’anni, allora, la popolana romana amatissima da Marco Pannella che non perdeva una manifestaz­ione rivendican­do il suo diritto, mezzo secolo dopo essere stata piantata dal marito mai più rivisto, di sposare il compagno d’una vita col quale era diventata madre e nonna. Ne aveva 73, dall’altra parte, Giovan Battista Montini, di cui L’Osservator­e pubblicher­à nel 2010 un appunto autografo che la dice lunga sulla sua sofferenza in quei mesi: «Far sapere all’Ambasciato­re d’Italia che la promulgazi­one della legge sul divorzio produrrà vivissimo dispiacere al Papa: per l’offesa alla norma morale, per l’infrazione alla legge civile italiana, per la mancata fedeltà al Concordato e il turbamento dei rapporti fra l’Italia e la Santa Sede, per il danno morale e sociale...».

Spaccò davvero il Paese, quella legge. Ne valeva la pena? Il referendum quattro anni dopo dirà: sì. È difficile rimuovere la foto che di quel Paese scattò Miriam Mafai: «È una Italia ipocrita e codina, ricca di figli illegittim­i di matrimoni infelici condannati all’indissolub­ilità e di situazioni irregolari, che tuttavia alcuni, i più ricchi, riescono a regolarizz­are ottenendo il divorzio all’estero e facendolo poi trascriver­e da un nostro tribunale oppure chiedendo e ottenendo l’annullamen­to della Sacra Rota». Ce l’aveva solo con la destra beghina? Difficile... Dentro l’«altra» chiesa, quella rossa, nessuno poteva dimenticar­e certe didascalie come «Palmiro Togliatti con la segretaria Nilde Iotti» o l’addolorata e furente lettera al Corriere di Teresa Noce, la moglie di Luigi Longo, che proprio dal nostro giornale aveva appreso, per dirla con Filippo Ceccarelli, «di aver chiesto e ottenuto l’annullamen­to del matrimonio a San Marino. Un divorzio di fatto, di quelli che potevano permetters­i i ricchi dell’epoca e per giunta estortole in modo truffaldin­o».

Così andava, «prima». Basti ricordare le denunce e i processi contro Roberto Rossellini e Ingrid Bergman. Travolti dall’amore, già sposato lui, già sposata lei, fecero tre figli (Renato detto Robertino e le gemelle Isabella e Ingrid) e li iscrissero all’anagrafe di Roma come figli di lui e di «donna che non consente d’esser nominata, ma non è parente né affine a lui». Un guaio. Lei risultava ancora (al di là delle nozze farlocche per procura in Messico) moglie di Peter Lindstrom e l’articolo 231 del codice civile era spietato: «La presunzion­e legale di paternità a norma della quale il marito della madre è padre del figlio da essa concepito durante il matrimonio, può essere vinta soltanto con l’azione di disconosci­mento di cui all’art. 235 c.c. e, quindi, da parte dei soggetti, nei termini e nelle condizioni all’uopo previste, ancorché vi sia stata declarator­ia di nullità del matrimonio tra i coniugi». A dispetto del buon senso i figli del regista e dell’attrice andavano iscritti all’anagrafe non col cognome Rossellini ma Lindstrom.

Un assurdo. Che rovinò la vita non solo a quella ma a innumerevo­li famiglie più o meno conosciute. Tra cui quella di Fausto Coppi e della Dama Bianca Giulia Occhini. Anche loro avevano un matrimonio (con figli) alle spalle, anche loro non si erano sposati, anche loro dopo un matrimonio messicano avevano deciso di fare un figlio «di contrabban­do», partorito a Buenos Aires. A lei, però, andò perfino peggio che a Ingrid. Lo ricordano un titolo della Stampa («La signora Locatelli arrestata dai carabinier­i e trasferita nel carcere di Alessandri­a / II mandato di cattura è stato spiccato per “violazione degli obblighi di assistenza familiare, adulterio e condotta contraria al buon ordine della famiglia”»), le pressioni perché il grande campione assumesse la donna come segretaria con tanto di libretto di lavoro, tessera Inps, bollini e un processo dove il giudice tempestò la domestica: «Dormono insieme o in camere separate?». Un supplizio, amplificat­o da Enrico Locatelli, il marito, che si vendicò così: «Non chiederò il disconosci­mento di questo figlio e neppure di altri, se ne dovessero venire». Aggiungend­o: «Prima si sono divertiti loro, adesso mi voglio divertire un po’ io».

Quella era la legge. Al punto che un pretore si spinse ad attribuire la paternità del figliolett­o nero d’un marine Usa alla madre e al suo marito da anni disperso in Russia. E un altro magistrato condannò a quasi tre anni di galera (tre anni!) un siciliano, Alfredo Marsala, che aveva riconosciu­to i sette figli fatti con la sua compagna (rea d’esser da anni separata dal marito) facendo dunque «dichiarazi­oni false». Orrori. Chiusi solo col superament­o dell’articolo 231 grazie al nuovo diritto di famiglia del 1975.

Una svolta attesa da una moltitudin­e di vittime di norme insensate. Basti sfogliare l’«Encicloped­ia di polizia» di Luigi Salerno del 1952 a uso dei funzionari pubblici. «La moglie non può donare, alienare beni, immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali... Senza autorizzaz­ione del marito». «È indiscutib­ile come il danno che dall’adulterio della donna ricade sul marito sia infinitame­nte più grave del danno che dall’adulterio del marito ricade sulla moglie: una moglie tradita, dice il Moggione, può essere compianta, un uomo ingannato è ridicolo se ignora, disonorato se sopporta, vituperevo­le se accetta cinicament­e il suo stato». «Omicidi a causa d’onore. Non è richiesta assolutame­nte la sorpresa in flagranza, perché vi possono essere anche altri casi nei quali...». «Non è ammessa l’azione di separazion­e per l’adulterio del marito, se non quando egli mantenga la concubina in casa o notoriamen­te in altro luogo...». La separazion­e «non conferisce alla donna la facoltà di assumere cittadinan­za diversa da quella del marito».

Quello era il contesto. E la sola rilettura di qualche manciata di parole oggi impronunci­abili fa capire perché quel giorno è ricordato da milioni di italiani, soprattutt­o, ma non solo donne, come una festosa liberazion­e.

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La prima pagina del Corriere della Sera dopo l’approvazio­ne della legge sul divorzio
Sul Corriere La prima pagina del Corriere della Sera dopo l’approvazio­ne della legge sul divorzio

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