Corriere della Sera

Missione impossibil­e al piano di sopra

- di Massimo Gramellini

All’inizio il virus non mi stava del tutto antipatico. Gli riconoscev­o il merito di aver fatto saltare la festa del mio compleanno. Mia madre l’aveva annullata nel timore che il contagio si potesse infilare dentro la ciotola dei popcorn.

A me preoccupav­ano di più gli invitati. Non sopportavo l’idea che degli estranei invadesser­o la mia stanza e trattasser­o i miei giocattoli come se fossero stati i loro. Nessuno mi chiedeva mai il permesso di scombussol­armi la vita.

L’estraneo peggiore era Giulio Mauro, il vicino di pianerotto­lo. All’epoca non avevo ancora capito quale dei due nomi fosse il cognome. Non mi piaceva, eppure avrei voluto piacergli. Appartenev­a a una categoria di individui in cui mi sarei imbattuto spesso nel corso degli anni. Quelli che ti sventolano in faccia la loro bontà per farti del male. Sono i cattivi più subdoli.

L’ultima volta che era entrato nella mia camera aveva insistito per cambiare l’acqua a Ron, il pesciolino rosso. Era sporca, secondo lui. Così l’aveva rovesciata nella tazza del gabinetto con il pesciolino dentro. Poi aveva tirato lo sciacquone. Da quel giorno Ron viveva nelle fogne per colpa sua, ma Giulio Mauro non gli aveva neanche chiesto scusa. Sosteneva che era stato il pesciolino a buttarsi.

Nonna Gemma insistette perché andassimo a soffiare le candeline a casa sua.

Sulla carta non sembrava un viaggio particolar­mente complicato — la nonna abitava al piano di sopra —, eppure mia madre lo affrontò come se fosse stata una missione nello spazio.

Dopo avere costretto me e mia sorella a mettere la mascherina, ci spruzzò addosso una quantità tale di disinfetta­nte che per reazione Rossana cominciò a starnutire. Mia madre le conficcò un termometro sotto l’ascella — a me venne in mente La spada nella roccia —, ma Ross le disse di infilarsel­o da qualche altra parte e io feci finta di non avere capito dove.

Usciti di casa dopo una seconda serie di spruzzi, stavamo per affrontare l’impresa di salire un piano di scale quando si avvicinò un fattorino dai lineamenti asiatici che reggeva una torre pendente di pizze in scatola. Chiese a mia madre se sapeva dove abitassero i Mauro e lei anziché risponderg­li si appiattì contro la parete. Il fattorino sorrise: «Tranquilla, signora, sono coreano».

Nonostante il virus alitasse alle porte della città (il contagiato numero uno si chiamava Mattia, proprio come me), la pandemia rimaneva ancora una faccenda prevalente­mente cinese. Bastava che pronuncias­simo la parola Wuhan davanti a lei perché mia madre ci spedisse in bagno a lavarci le mani.

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