Nel profondo del destino umano Un terremoto di nome Nietzsche
Il filosofo tedesco ha esplorato la galassia vitale in cui ognuno è immerso Opere sempre attuali che hanno ispirato concezioni del più vario genere
Friedrich Nietzsche «scriveva con il sangue», secondo Georges Bataille, e quel sangue era il suo. Quello di un filosofo, ma prima ancora di una persona, che aveva saputo scavare la condizione umana fino a svelare il tragico ineffabile che la caratterizza: lo scarto fra gli altissimi ideali di cui siamo portatori e le bassezze di una realtà che sembra costruita apposta per smentirli e distruggerli. Fino ad arrivare alla luce più enigmatica: l’unica verità a cui può aspirare l’uomo è la consapevolezza dell’assenza di ogni verità.
Quasi nessuno vuole conoscere la verità, specialmente quando essa presenta degli elementi tali da far traballare tutta la fortezza esistenziale che l’uomo si è costruito, illudendosi, in tal modo, di poter abitare il mondo nella dimensione protetta di un orizzonte di senso.
A partire da Socrate e Platone, questo ha fatto l’umanità secondo Nietzsche: illudersi, dimenticando la lezione di Omero che, ben prima di Ungaretti, aveva scritto: «Tale e quale alla stirpe delle foglie è la stirpe degli uomini», la più miserevole fra tutti gli esseri.
Fuori dalla dimensione apparentemente protetta dell’illusione, infatti, c’è l’abisso popolato dai mostri di una vita spogliata dalle confortanti illusioni e, come Nietzsche stesso scriveva con il consueto stile suggestivo, «chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te».
È ciò che il filosofo tedesco ha fatto, ossia volgere lo sguardo della mente verso l’abisso. Proprio da qui origina il fulcro al tempo stesso «osceno» e terrificante del suo pensiero.
Uno che in quanto filosofo e, quindi, «cercatore di verità», si è spinto in tal modo a terremotare non soltanto la quasi totalità dei 2.500 anni di filosofia che lo hanno preceduto, non soltanto il senso stesso del «pensare» e la possibilità di raggiungere un qualcosa come «la» verità attraverso questo strumento umano (troppo umano!), ma alla fine anche il fragilissimo equilibrio dell’uomo e perfino il proprio.
È Nietzsche ad aver svelato all’uomo la sua condizione di mezzo e non fine, ingranaggio e non fulcro, pedina e non giocatore di un meccanismo impersonale («eterno ritorno dell’identico») che egli chiama vita pensando sia sua, quando in realtà ne è soltanto attraversato e dilaniato come se fosse il sogno (o l’incubo) di qualcun altro. Tali altezze e bassezze connotano la galassia vitale in cui è immerso ciascuno di noi, così che a fare la differenza sono soltanto la volontà e la capacità che abbiamo di riconoscerle e analizzarle in profondità.
Questo è stato il capolavoro filosofico e psicologico di Nietzsche, probabilmente in virtù del suo aver sfiorato esistenzialmente le altezze di un pensiero forse mai così profondo, salvo poi precipitare negli abissi più bassi e patologici. Tutto nella stessa vita, la
L’unica verità alla quale possiamo aspirare è la consapevolezza dell’assenza di verità
sua. Ciò in un duplice senso: come pensatore, capace di scavare nei sentieri più nascosti della condizione umana, salvo poi spingersi a dividere l’umanità in schiavi (i più) e signori (pochissimi), e proponendo l’«eliminazione di milioni di malriusciti». Ma anche come uomo, di cui molti personaggi autorevoli del suo tempo ebbero modo di ammirare il genio e la grandezza, per poi restare turbati dal suo graduale piombare in una follia che lo spinse a vaneggiare e a scrivere frasi insulse. Fino a mangiare e bere i propri escrementi, stando al rapporto medico dell’istituto che lo ebbe in cura per qualche tempo.
Un filosofo che menò vanto della propria «inattualità», ma con una buona parte di torto. Infatti, la visione enigvisione matica e abissale l’aveva tratta da Schopenhauer e Leopardi, così come con Darwin, Spencer e Malthus condivideva l’intendimento antagonistico e selettivo della natura e della stessa umanità, governate entrambe da una volontà di potenza diversamente distribuita fra tutte le creature e in grado di muovere ogni cosa. Fino alla teoria dell’eterno ritorno, ideata dagli stoici antichi, rielaborata da Schopenhauer e attraverso quest’ultimo fatta propria da Nietzsche. Il quale aggiunse a tutto questo una integralmente sua, quella del «superuomo», in grado di incidere nel futuro in due direzioni: da una parte fu fatta propria in maniera perlopiù grossolana dalla destra estrema (Hitler e Mussolini furono due lettori entusiasti del filosofo, tanto che il Führer regalò al Duce, appena deposto e in occasione del suo sessantesimo compleanno, un’edizione delle opere complete di Nietzsche con tanto di dedica).
Dall’altra ispirò, in tempi a noi più vicini, il pensiero debole e il post-moderno, con il suo relativismo gnoseologico secondo cui «non esistono fatti, ma soltanto interpretazioni». Ma un fatto è certo: non si può prescindere da Nietzsche se si vuole intendere il tempo presente.
Era un genio ma finì gradualmente per cadere in una follia che lo spinse a vaneggiare