LA COESIONE DA COSTRUIRE PER GESTIRE LA COMPLESSITÀ
Al di là delle tecnologie, delle infrastrutture, e delle istituzioni, senso di responsabilità e capacità cognitive adeguate saranno i requisiti indispensabili
La pandemia è il terzo choc in 19 anni ad aver colpito le società globalizzate. L’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 ha fatto esplodere la questione del rapporto tra le culture che ha prodotto quel terrorismo che continua a essere un problema non ancora debellato. Sette anni più tardi, nel 2008, la crisi finanziaria, innescata dai mutui subprime, ha sconvolto i mercati, determinando forti contraccolpi sugli assetti geopolitici e sul clima psicosociale di molte democrazie. In questo 2020 il virus venuto dalla Cina — che ha finora provocato più di 1 milione e 250.000 morti — ha costretto a bloccare le attività economiche e sociali determinando lunghi mesi di incertezza e confusione.
L’arrivo del vaccino, ottenuto in tempi da record, aiuterà a superare l’emergenza nel corso del 2021. Anche se sappiamo già che il processo sarà lento, con un prevedibile ulteriore aggravamento delle conseguenze economiche sociali.
Come documentato da diversi rapporti internazionali, il mondo che abbiamo costruito alla fine del XX secolo è straordinariamente potente ma anche altamente entropico: il nostro stesso modello di sviluppo ci espone a rischi che, prima o poi, si trasformano in choc. Il World Economic Forum ne distingue cinque tipi: economici (deflazione, crisi fiscale, disoccupazione, bolle finanziarie, etc.); ambientali (perdita della biodiversità cambiamento climatico eventi atmosferici estremi, disastri naturali, etc,); geopolitici (conflitti interstatali, collassi nazionali, attacchi terroristici, distruzione di massa, etc), sociali (crisi alimentari, epidemie, migrazioni, stabilità sociale, etc.), tecnologici (attacchi informatici, furti di dati, breakdown infrastrutturali, etc).
Per essere realisti, una volta superata la crisi del coronavirus dovremo domandarci: quale sarà il il prossimo choc che ci colpirà? Per guardare avanti è dunque necessario cambiare il punto di vista, imparando a governare quella complessità che il nostro modello di sviluppo fa aumentare ogni giorno di più. Le interdipendenze che legano gli abitanti della Terra tra loro e con l’ecosistema sono ormai tali e tante che non possono essere più messe tra parentesi. In fondo, se non vuole essere un’etichetta superficiale che non cambia nulla, «sostenibilità» significa proprio questo: ogni attore sociale — sia esso Stato, impresa, territorio, associazione, Chiesa — non può più pensarsi «a prescindere», al di fuori della rete complessa di relazioni in cui opera.
Due fattori sono allora decisivi per provare a entrare in questa nuova epoca.
Il primo è una sorta di svolta epistemica: per affrontare il futuro che ci attende abbiamo bisogno di andare al di là della iperspecializzazione dotandoci di quegli strumenti (Joël de Rosnay parlò una volta di «macroscopio») utili a comprendere il tessuto complesso e multidimensionale della realtà che abbiamo costruito. Una svolta che sarà più facile realizzare se, contrastando le spinte a creare nuovi regimi di sorveglianza nelle mani di pochi centri di potere, sapremo democratizzare l’accesso all’enorme quantità di dati che la digitalizzazione mette a disposizione. Il recentissimo Data Governance Act proposto dalla Commissione europea segna un primo (insufficiente) passo nella giusta direzione.
Il secondo ha a che fare col rinnovato ruolo delle istituzioni politiche, che la pandemia ha reso ancora più evidente. Ma anche qui occorre stare attenti. Il concetto di sovranità — che nella modernità si è pensato assoluto — oggi si declina prima di tutto nella capacità di integrare aree territoriali dal punto di vista sistemico, economico, sociale e culturale. E poi nella capacità di giocare questo spazio di sovranità in relazione a ciò che va aldilà del proprio confine, tenendo conto
Visione Servono strumenti utili a comprendere il tessuto multidimensionale della realtà
Collaborazione Senza il senso di fiducia si sprigiona solo una domanda irrazionale di sicurezza
di quelle interdipendenze globali che non possono essere disconosciute.
Se non si vuole andare a sbattere violentemente contro prossimi choc ancora più devastanti, un tale cambio di prospettiva diventa urgente nel post pandemia. Non tutte le imprese, non tutte le istituzioni private (fondazioni, scuole, università, terzo settore), non tutti gli Stati nazionali, saranno in grado di stare a questo nuovo gioco che richiede un vero e proprio cambio di «mindset» (mentalità). Per questo è necessario affrettarsi ad avviare la transizione che dovrà necessariamente scommettere sulle nuove generazioni. Come molte ricerche ci dicono, la gestione della complessità non può prescindere dall’elemento umano. Al di là delle tecnologie, delle infrastrutture, delle istituzioni, senso di responsabilità e capacità cognitive adeguate sono due requisiti indispensabili.
Tutto ciò significa lavorare per creare società coese, in grado di creare quel senso di collaborazione e fiducia senza il quale si sprigiona solo una domanda irrazionale di sicurezza. Gestire la complessità significa, insomma, spezzare il chiasmo che si è venuto a creare negli ultimi decenni, quando abbiamo creato (improvvide) «società del rischio» che hanno scaricato sui singoli l’onere di risolvere i problemi globali, alimentando così quell’ossessione per la sicurezza su cui sono cresciuti i populismi. Ora abbiamo bisogno di costruire «società resilienti» per generare quella coesione che serve per creare un ambiente favorevole alla iniziativa e all’intrapresa personali.