Corsi: vi racconto le nomine di Descalzi e Starace
Il super cacciatore di teste Corsi rivela i retroscena delle nomine
Una carriera nell’industria. In quell’industria che ha fatto grande l’Italia. Tanto per capire, di quando Zanussi stava per comprarsi la svedese Electrolux, perché il miracolo economico italiano era fatto sì di manifattura, di imprese, ma soprattutto di imprenditori e imprenditrici. Di persone. A 33 anni Carlo Corsi, che oggi ne ha 71, era direttore commerciale con 3.600 dipendenti di quella Zanussi che aveva il 25% di quota di mercato e che per la tragedia occorsa al proprietario finì agli svedesi che del mercato controllavano appena il 5%. Dopo aver guidato Seleco e Brionvega, la svolta: 26 anni a scegliere classe dirigente. A stare dietro le quinte, a non apparire mai, ma essere sempre lì a consigliare azionisti, imprenditori, ministri e presidenti del Consiglio, a far conoscere uomini e donne che potevano fare la differenza nelle grandi e piccole aziende dall’Eni passando per Telecom, Enel, Finmeccanica Ansaldo, Fs. Parlare con Corsi è come rivedere il film dell’economia italiana dell’ultimo trentennio con un punto di vista inedito. Con il 17 dicembre, con l’approvazione del bilancio, Corsi lascerà Spencer Stuart ma non il suo lavoro che continuerà. Si scopre come Francesco Starace sia diventato amministratore delegato di Enel e lo stesso dell’Eni per Claudio Descalzi. Poi come andarono quegli incontri tra Cesare Geronzi e Giovanni Bazoli per arrivare a dare una guida nel 2007 a Telecom Italia. «Del resto — dice Corsi —, i numeri contano. Contano sempre. Ma sono le persone a farli diventare reali, a dare alle aziende valori e prospettive».
Ma anche quando c’è di mezzo la politica? O comunque il governo che tramite il Mef è azionista importante di società come Eni ed Enel.
«Ecco lei ha usato la giusta definizione, azionista importante. Non sono cioè società statali. Non dovrebbe accadere che Palazzo Chigi convochi i vertici di quelle società come fossero statali».
Perché, è accaduto?
«Sì un paio di anni fa. Intendiamoci non c’era chissà quale intento. E nel corso del tempo i comportamenti sono mutati».
Ma chi c’era a Palazzo Chigi?
«C’era Conte. Ma non c’era malizia, era un governo insediato da pochi mesi. E in quanto azionista di riferimento voleva esercitare un ruolo, come tanti altri soci di riferimento nelle aziende private. Ma le società sono strutture delicate, dove si legge anche il non detto. Dove una nomina fa la differenza. Nel settore pubblico si è capito compiutamente nel 2014».
Cosa è successo nel 2014?
«A guidare il governo c’era Enrico Letta. E il compianto ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni che veniva dalla Banca d’Italia, decide di avviare una nuova procedura per le nomine. Indice una gara tra head hunter, tra cacciatori di teste. Ne sceglieranno due, uno dei due era la mia società».
Dove sta la novità?
«Non solo dovevamo lavorare assieme, non solo dovevamo lavorare assieme agli uffici Mef ma di fatto dovevamo controllarci l’un l’altro».
Come è andata?
«Stiliamo una lista con un numero di candidati doppi, rispetto alla richiesta. Poi, durante un incontro con Saccomanni, propongo: ma perché non sentiamo gli attuali capi azienda? Magari hanno un’idea di qualche interno che può essere adatto».
E Saccomanni?
«Ci dà il via libera. Andiamo da Paolo Scaroni per l’Eni e da Fulvio Conti per l’Enel. Ed entrambi un’idea ce l’avevano e precisa. Scaroni dice l’unico è Claudio Descalzi. Conti indica due persone Ferraris e Starace».
Avete seguito quindi le loro indicazioni, perché Descalzi ancora oggi guida l’Eni e Starace l’Enel.
«Sì e mi pare che facemmo bene. Anche perché le nomine non le fece il governo Letta ma quello di Matteo Renzi. Evidentemente l’intuizione fu buona. Ma è chiaro che devi seguire le indicazioni dell’azionista».
Ma vale sempre?
«No. Anzi. Nel 2007 ero a Bermuda in un partners meeting (eravamo in 500 e per la terza volta sarei entrato nel board internazionale) una riunione mondiale di Spencer Stuart. Mi chiama Francesco Micheli, capo delle risorse umane di Banca Intesa. E mi dice: dobbiamo trovare il numero uno di Telecom Italia per Telco che controllava la stessa Telecom. I soci erano Intesa, Mediobanca, Generali ed Edizione».
Non sarà stato facile metterli d’accordo…
«Apparentemente sì. Il mandato era chiaro. Non doveva essere un manager che avesse avuto a che fare con la passata Telecom. Negli incontri con Gilberto Benetton (Edizione), Renato Pagliaro (Mediobanca) e Gaetano Micciché (Intesa), non era stata considerata l’ipotesi di indicare Franco Bernabè. Avevamo quindi trovato due ottimi candidati».
E poi cos’è successo, visto che Bernabè diventa capo azienda?
«Geronzi e Bazoli si erano incontrati e avevano deciso che ci voleva al contrario una persona che avesse le caratteristiche di Bernabè».
E il vostro lavoro?
«La nostra funzione è riuscire a far mettere a fuoco le esigenze. Come è accaduto per Telecom».
In Telecom in effetti c’è stato un bel viavai, avrete avuto da lavorare...
«Sì anche con Amos Ghenish, senza molte soddisfazioni dal punto di vista degli onorari, però anche lì, dovevamo ricercare di fatto tutta la prima linea, tranne il capo della rete. Presentiamo i candidati tra i quali il bravissimo Stefano Siracusa. Che indovini un po’ cosa diventa? Capo della rete e lo è ancora oggi».
All’inizio dicevamo della politica...
«Ma no, la politica fa il suo mestiere, cerca consenso, si fida ovviamente di persone a lei vicine. Ma un signore come Franco Tatò con la politica che c’entra? Eppure è lui da numero uno di Enel nel 1996 che inaugura la nostra piccola sede a Roma quando fatturavamo l’equivalente di 1,5 milioni di euro, oggi siamo a 25».
Ma l’intreccio c’è stato, nel vostro advisory board ci sono tuttora Gianni ed Enrico Letta.
«Sì, quella storia è curiosa. Gianni Letta conosceva mio padre. Andai a trovarlo nel 2006 e gli proposi di entrare nel nostro advisory board. Mi rispose: la mia carriera in Mediaset è quasi conclusa e potrebbe essere interessante. Noi avevamo un advisory board con Carlo Secchi, c’era Elio Catania, Tomaso Tommasi e gli feci la proposta di entrare. Un anno dopo torna Berlusconi al governo e Letta viene a un meeting dell’advisory board e ci dice: devo chiedere un’aspettativa perché vado a Palazzo Chigi. Io gli chiedo: hai qualche consiglio? E lui mi fa il nome di suo nipote Enrico».
Che finirà a Palazzo Chigi anche lui, sebbene qualche anno dopo...
«Ci occupiamo di persone di valore...».
Claudio Descalzi Selezionammo dei nomi per l’Eni, poi proposi di sentire il capo azienda Paolo Scaroni, il quale disse che l’unico era Descalzi
Francesco Starace Per l’Enel fu il ceo Fulvio Conti a indicarmi Starace quando gli domandai se aveva in mente qualche manager interno
Gianni Letta Letta prese l’aspettativa dall’ advisory board di Spencer Stuart e io gli chiesi un nome: fece quello del nipote Enrico