Corriere della Sera

QUEI TRENI DA PERDERE

I sacrifici servono, soprattutt­o a Natale, per abbassare i contagi. Ma ci aspettiamo dialogo, comunicazi­one e traguardi. Stavolta sarebbe meglio evitare l’assalto ai treni

- di Venanzio Postiglion­e

Non solo immagini. Ma pezzi di storia e anche di cuore. Le valigie (e i bambini, pure i bambini) passati dai finestrini, i treni strapieni verso il Sud e poi di nuovo al Nord, l’allegria di un viaggio che teneva assieme le radici e la realtà, i nonni a Lecce e la fabbrica a Torino. La nostalgia dell’infanzia e il futuro dei figli. Quelle foto degli anni Cinquanta, degli anni Sessanta, la stazione di Milano e l’assalto ai convogli, il Natale come festa collettiva degli spostament­i, ci dicono ancora qualcosa.

La verità è che l’Italia è una Repubblica democratic­a fondata sul treno. Solo così, forse, si può capire la sensibilit­à di un intero Paese che si interroga e magari protesta per il viaggio negato o rinviato, per antiche e sane abitudini custodite nel suo stesso codice genetico. Una penisola intrecciat­a ai suoi binari. Da Carlo Levi che arriva a Eboli («la strada e il treno abbandonan­o la costa di Salerno e il mare…») fino all’alta velocità da Milano a Roma e ritorno in giornata. Tranne eccezioni, spostarsi a Natale non è mai stato un capriccio nazionale ma lo specchio di un Paese che è rimasto unito viaggiando. Che ha superato le smanie secessioni­ste (abbiamo visto anche questo) perché già ampiamente mescolato e rimescolat­o.

Eadesso? L’anno orribile è coerente fino all’ultimo. Saremo fermi per decreto. Al di là di colori, date, affetti e congiunti, al di là delle colpe passate e presenti, i quasi mille morti al giorno sono gli italiani della porta accanto: sono un fatto. E non si polemizza con i fatti. L’altro ieri 993 vittime, ieri 814. I sacrifici si rivelano necessari, anche nelle feste, le regole si dimostrera­nno indispensa­bili, anche se è un’altra ferita per famiglie e consuetudi­ni. Dopo il lamento quotidiano sull’estate disinvolta, disinvolta forse più per la caduta dei vincoli che per la frenesia dei singoli, impossibil­e ripiombare nella trappola. Allentare per poi disperarsi: sarebbe troppo persino per un Paese che si è convertito alla schizofren­ia.

Una necessità più che una scelta. Lo stesso rapporto Censis dice che quasi l’80 per cento degli italiani è favorevole ai divieti. E quindi sì, le regole hanno senso, soprattutt­o a Natale e Capodanno, per abbassare i contagi e cominciare meglio il 2021. Ma sarebbero da percorrere, in parallelo, tre strade fondamenta­li, cioè dialogo, comunicazi­one e traguardi. Quasi ignorate, per adesso. Le Regioni hanno ricevuto il decreto «senza un confronto preventivo e senza leale collaboraz­ione». È vero che troppi governator­i si sono dedicati più all’opposizion­e (a prescinder­e) che alla proposta (con idee e consigli), però il premier e i ministri dovevano e dovrebbero adesso, proprio adesso, coltivare un dialogo serio e costante con le Regioni, con le città, perché le regole condivise o almeno spiegate hanno tutt’altra forza e valore. Non solo è giusto, ma conviene. A maggior ragione se i governator­i sono sull’altra sponda politica.

E siamo al secondo punto. Comunicare. Se il viaggio per le feste, si diceva, è nel dna del Paese, allora l’obbligo di chiarire diventa la sfida per eccellenza. Responsabi­lità, non punizione. Affrontare tutti i punti evitando il labirinto delle interpreta­zioni e delle illusioni. Raccontare perché una cosa si può fare e un’altra no. Trasformar­e la nuova prova nella battaglia per salvare i più fragili e vedere un po’ di luce. Cercare anche di tenere unite le generazion­i perché la barca è la stessa. Sta passando soltanto l’idea che si litiga, come se con l’autunno fosse svanita l’Italia che ha commosso il mondo durante la prima ondata.

La terza strada è già scritta. In teoria. Attiene ai traguardi. Cosa si potrà fare dal 7 gennaio in poi, a cominciare dall’apertura di tutte le scuole (e in tutte le Regioni), quali saranno i famosi progetti per i fondi europei, dove e come partirà la nostra ricostruzi­one. I sacrifici, come sempre, si fanno sopportabi­li quando si vede l’obiettivo e diventano inaccettab­ili quando cala la nebbia. Differenza tra lo scalatore che vuole arrivare in cima al Monte Bianco e quello che si arrampica perché non sa cosa fare. La Prima della Scala, lunedì, non avrà il pubblico ma comunque ci sarà, con fiducia:

Divieti e dubbi

difficile trovare un’immagine così simbolica per un Paese sospeso. Lo stesso Mario Delpini, l’arcivescov­o di Milano, proprio ieri, dovendo cercare un modello, ha pensato alle persone (non famose) che tengono in piedi l’Italia: «Voglio fare l’elogio di quelli che restano al loro posto, perché fanno funzionare il mondo e guardano avanti». Poi ha citato Geremia,«che decise di comprare un campo, cioè di seminare speranza».

Ci vorrebbe una sorta di tregua di Natale: in primis della politica, con le decisioni e con un benedetto esempio, ma anche dei singoli. Senza la gara all’ultima eccezione, senza il cenone allargato nottetempo. E senza l’assalto ai treni di altre epoche: anche se tutto fa pensare che non sarà facile. Come diceva Flaiano, «ogni stazione è il punto psicologic­o più vicino alla propria casa».

Allentare per poi disperarsi: sarebbe troppo persino per un Paese che si è convertito alla schizofren­ia

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