Il mondo spiegato a china
Sport, delitti, Milano: cioè la vita. Le tavole di Dario Mellone non avevano confini
«La Fiera è il Natale di Milano, il suo vero periodo di feste. Tutto il resto rimane come lietamente sospeso, anche le rabbie, i dispiaceri, i debiti, le scadenze di consegna. Sì, ci rivedremo dopo la Fiera, ma certo ne parleremo dopo la Fiera, intanto lasciamo passare la Fiera, ma sì il dottore è in Fiera, penso che l’ingegnere sia in Fiera, il commendatore deve essere in Fiera...». Formidabile, Dino Buzzati. Mettetegli poi accanto una mappa a volo d’uccello (prima di Google Earth, dei droni, del software Revit) schizzata a china dal mitico Dario Mellone e avrete una pagina strepitosa come quella del «Corriere della Sera» del 14 aprile ’68. Sull’apertura della 41ª Campionaria.
Rivedere questo traboccare d’entusiasmo in questi mesi così cupi e angoscianti per tutti noi e su tutti per Milano mette il magone e insieme spalanca il cuore. Era proprio in forma, quel giorno, lo scrittore bellunese: «La Fiera è la febbre di Milano... I milanesi magari dicono di no eppure provano una viziosa soddisfazione a vedere la città congestionata in una specie di delirio, gli alberghi zeppi, i ristoranti con le code, i cinema coi soli posti in piedi, e tutte quelle automobili con targhe rare e incomprensibili, tutte quelle macchine che fanno valanga e asma ai semafori, i raffinati perfino ci prendono gusto: dall’ufficio a casa, che di solito ci metto dieci dodici minuti, oggi mi ci è voluta un’ora e mezzo perdio, questa sì che si chiama una metropoli».
Ed è appunto a questa e altre storiche accoppiate come le ricostruzioni delle acque veneziane «prima e dopo», a corredo dell’attacco di Indro Montanelli all’imbonimento delle barene in violazione della regola «scrupolosamente seguita dalla Serenissima, l’intangibilità della laguna», è dedicato un libro che raccoglie buona parte delle tavole dipinte da Dario Mellone nei suoi 25 anni più fecondi al «Corriere». Si intitola da Milano alla Luna. Viaggio con fermate a richiesta, è stato curato da Andrea Ciresola, Saverio Paffumi e Valerio Villoresi, conta sulla collaborazione di amici e autori vari, è edito da Skira.
Nato a Bologna la domenica di Pasqua del 1929, cresciuto a Milano, figlio d’un agente della Vallardi e una libraia, liceale al Berchet, spinto dal padre a studiare architettura rinunciando all’agognata iscrizione all’Accademia di Brera, Dario arriva al giornalismo sognando un avvenire da pittore. Per mantenersi, collabora come illustratore con alcune case editrici: «Nel ’50 mi presento a Dino Buzzati, vicedirettore della “Domenica del Corriere”. Apprezza i miei disegni e mi offre una collaborazione per il “paginone”». Resterà «di famiglia» al «Corriere», amatissimo dai lettori, per oltre quarant’anni. Prendendo casa dietro via Solferino. Sempre a disposizione. Per illustrare tutto: «Il metrò che avanza. Il delitto del sabato sera. La sparatoria in centro. Il gol fantasma di Rivera. Lo choc di piazza Fontana», scrive Luciano Fontana, «una sorta di lungo (e coinvolgente) racconto di vita e di cronaca, uno specchio fedele (e appassionato) delle vicende dell’Italia e di Milano. A volte più di un titolo, di un articolo. Un tratto unico, senza eguali». Una risorsa preziosissima, per il giornale. Giorno e notte: «Una telefonata a casa: e appariva Mellone».
Appena poté permetterselo, ricorda Ferruccio de Bortoli che esordì ventenne facendo un po’ da spalla al maestro con cartine «assai sempliciotte», Dario si regalò una stanza tutta sua: «Voleva dedicarsi, anima e corpo, alla sua grande passione: la pittura. Un amore solitario e totale. Quando lo andavo a trovare non era raro che mi intrattenesse sulle sue ultime opere. Me le spiegava con dovizia di particolari uscendo per un attimo dal carattere timido e riservato». E tanto riusciva a mostrare
in tavole chiarissime le cose più complicate da spiegare a parole (la tragedia dell’Heysel durante la finale di Coppa dei campioni Liverpool-Juventus, l’angosciato rientro dell’Apollo 13, il sequestro del piccolo Daniele Alemagna, «trentesimo rapimento del 1974») così si concedeva un linguaggio quasi iniziatico sulla sua arte pittorica: «Sviluppo il ciclo delle Cellule e delle Strutture cellulari, collages di cartone ondulato su masonite con un procedimento iterativo e segnico...». Ahimè: «La situazione economica è disastrosa: fare pittura costa e non vendo». Meno male per lui che c’era il «Corriere», meno male per il «Corriere» che c’era lui.
Morivano 8 persone in una sparatoria tra i clan rivali di Angelo
Epaminonda e Francis Turatello nella strage di San Valentino alla Barona? «Chiamate Mellone!». Trovavano resti archeologici dell’antica Mediolanum scavando per la metro? «Chiamate Mellone!». Lo «scozzese volante» Jim Clark moriva sul circuito di Hockenheim? «Chiamate Mellone!». Il cuore della città era paralizzato da un ingorgo pazzesco in piazza Cordusio, oggi protetta da mille vincoli ma nel 1981 più intasata dei vicoli di Napoli? «Chiamate Mellone!». Un’ora, massimo due per impadronirsi dei dettagli raccontatigli in redazione (ma l’assassino aveva il paltò o l’impermeabile?) ed ecco la consegna, in una borsa di cuoio.
Un fenomeno. Su ogni tema. L’urbanistica. La cronaca nera. I treni. I drammi familiari. Il terrorismo. Come quel maledetto 28 maggio 1980 in cui assassinarono il nostro Walter Tobagi. Scrive nel libro di cui parliamo Benedetta Tobagi, la figlia: «Le indagini successive si faranno carico di correggere alcuni dettagli» ad esempio «nessuno dei killer che tesero l’agguato a mio padre portava un cappello alla Dick Tracy. Ma l’effetto complessivo non cambia». Il senso di quello che era successo era lì, sulla tavola. Come il giorno in cui illustrò il surreale groviglio di 4.633 navette e satelliti e macchine spaziali che si affollavano intorno alla Terra nel 1979. «Oggi capisco perché Mellone fosse così ricercato: perché faceva… il lavoro del traduttore», commenta l’astronauta Paolo Nespoli, rimasto lassù 313 giorni: «Traduceva dalle parole alle immagini, una dimensione visiva che non solo descriveva le informazioni contenute negli articoli, ma ne aggiungeva altre e in più riusciva a “prenderti”». E come dimenticare la Milano del futuro che immaginava? I treni e gli immensi parcheggi sotterranei, le aree verdi che si riprendevano i Navigli, i grattacieli avveniristici conficcati nel cielo... E qua e là sempre figure di uomini, donne, bambini... Tutti disegni che, per Stefano Boeri, «riescono a dar conto di questo complesso processo di selezione ed emersione della cronaca dalla vita quotidiana. In una sola tavola ritroviamo la dinamicità degli eventi (spesso drammatici o tragici), la descrizione specifica degli spazi e l’emozione della ricostruzione quasi in tempo reale delle vicende umane. Tutto insieme». Come pittore meritava, forse, un po’ di più. A Milano e ai lettori del «Corriere» però, col suo pennino a china, diede davvero tutto.