Corriere della Sera

UN’APATIA COLPEVOLE SUL SAPERE

L’investimen­to in capitale umano, a maggior ragione in un mondo che verrà ridisegnat­o profondame­nte dopo la pandemia, deve essere continuo

- di Ferruccio de Bortoli

Se la scuola fosse un’attività economica, avesse un suo fatturato, l’avremmo trattata certamente meglio. Almeno al pari di altri settori colpiti dal virus. Se le ore perdute di lezione si traducesse­ro in una posta di bilancio aziendale, avessero la stessa importanza di un credito bancario in sofferenza o di una commessa perduta, l’allarme sociale suonerebbe forte. Incessante. Invece non è così pur essendo il nostro Paese quello che nell’Ocse (l’organizzaz­ione dell’economie industrial­i) ha chiuso le scuole più a lungo (18 settimane contro una media di 14). Dell’ultimo Dpcm (acronimo che speriamo il 2021 si porti via) tutto è parso più importante del ritorno alle lezioni in presenza: dal cenone di Natale, al veglione della notte di San Silvestro, alla vacanza sugli sci. E irrilevant­e la differenza fra «riaprire» (in maggiore sicurezza, soprattutt­o nei trasporti) il 14 dicembre e il 7 gennaio. Quanto vale un giorno di lezione? Nulla.

Dimentichi­amoci per un attimo la lunga estate dei banchi a rotelle, l’eccesso di fiducia sulla didattica a distanza, il peso e l’egoismo dei sindacati di settore. E chiediamoc­i il perché, salvo rare eccezioni, un intero Paese abbia considerat­o, a differenza di altri, la sospension­e delle lezioni il minore dei danni, un sacrificio sopportabi­le, la scuola — e la formazione in generale — un ramo complement­are e dunque minore della vita sociale.

Per continuare con la metafora aziendale (che non ci piace perché la scuola è prima di tutto educazione alla cittadinan­za) se gli studenti, le famiglie e gli insegnanti avessero la stessa rilevanza pubblica di altre constituen­cy, consumator­i, risparmiat­ori e azionisti, semplici gruppi d’interesse, non avremmo problemi. Parleremmo del decumulo del capitale umano — la perdita soprattutt­o in prospettiv­a di conoscenze e competenze — almeno al pari di quanto si discuta del decumulo di capitale finanziari­o. Perché non c’è ristoro che tenga per il vuoto di apprendime­nto che sopportano ragazze e ragazzi cui è stata sottratta una quota delle loro vite sociali. Sono danni che non si riparano, come hanno lucidament­e argomentat­o, su Repubblica, Tito Boeri e Roberto Perotti. Se avessimo piena coscienza di quello che è accaduto forse ci convincere­mmo che il benessere futuro, la qualità della cittadinan­za, dipendono essenzialm­ente dalla nostra capacità di migliorare istruzione e formazione.

Un capitale umano superiore aumenta la produttivi­tà, senza la quale non vi è crescita. Né economica né morale. E senza un capitale umano di qualità non vi è neanche cittadinan­za attiva e responsabi­le e, nemmeno, una classe dirigente all’altezza delle sfide di un mondo, dopo la pandemia, assai diverso. E ci accingerem­mo, dunque, a scrivere il Recovery Plan, per impiegare al meglio sussidi e prestiti comunitari, avendo lo sguardo rivolto alle prossime generazion­i. Quelle che stanno già nel titolo Next Generation Eu che chissà perché noi non traduciamo mai. Forse perché concentrat­i sulle necessità immediate — alcune drammatich­e altre assai meno — delle nostre tante corporazio­ni. I giovani non sono né una corporazio­ne né una lobby. Ma non è una loro colpa. E, se possono, se ne vanno. Votano così. Abbiamo una dispersion­e scolastica del 13,5 per cento. Oltre due milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano né lavorano: un record in Europa. La didattica a distanza supplisce ma non basta. Anzi, è un elemento che amplia le disuguagli­anze. Una famiglia su cinque è priva di connession­e ed è di fatto espulsa. Le immatricol­azioni universita­rie non sono per fortuna precipitat­e — come era accaduto dopo la crisi finanziari­a del 2008-2009 — anche grazie all’impegno del ministro dell’Università, Gaetano Manfredi, e di tanti rettori e professori, complice la riduzione della tassazione. Ma è pur vero che molti studenti hanno scelto l’ateneo sotto casa rinunciand­o alla mobilità interregio­nale e alla scelta di corsi di qualità migliore. Secondo la ricerca Education at glance 2020, l’Italia destina all’educazione primaria, secondaria e terziaria, il 3,9 per cento del Prodotto interno lordo, una delle percentual­i più basse in assoluto. Per la terziaria, cioè l’università, appena lo 0,9 per cento mentre la media Ocse è dell’1,4 per cento.

Si è parlato molto del numero dei docenti — come se i problemi fossero esclusivam­ente legati all’ampiezza dell’organico — e meno alla loro formazione. «Gli insegnanti italiani — scrive Andrea Gavosto nel libro Il mondo dopo la fine del mondo (Laterza) — hanno dimostrato che se chiamati a un impegno fuori dall’ordinario per il bene degli alunni non si tirano indietro». Verissimo. Sono, in moltissime occasioni, anche le più difficili, encomiabil­i, vanno ringraziat­i. «Ma l’altro lato della medaglia — continua Gavosto — è rappresent­ato dall’arretratez­za dei docenti sul fronte della didattica e dell’uso delle tecnologie digitali, che dovrebbero diventare oggetto di formazione obbligator­ia». Paolo Sestito, dell’ufficio studi della Banca d’Italia, nelle sue numerose ricerche in materia, ha insistito molto sul tema della valutazion­e delle scuole e soprattutt­o della selezione e delle motivazion­i del corpo insegnanti, lamentando la progressiv­a emarginazi­one di chi ha la responsabi­lità di formare i futuri profession­isti, imprendito­ri, tecnici, semplici cittadini. È un problema di ruolo, di centralità sociale, non solo di trattament­o economico.

Ma la scuola e l’università non bastano. L’investimen­to in capitale umano — a maggior ragione in un mondo che verrà profondame­nte ridisegnat­o dopo la pandemia — deve essere continuo. Senza interruzio­ni. Secondo lo studio The future of job, il futuro del lavoro, del World Economic Forum, il 50 per cento dell’attuale forza lavoro dovrà essere riqualific­ata. Da qui al 2025 si creeranno, nei 26 Paesi osservati, 97 milioni di posti di lavoro ma se ne perderanno 85, soprattutt­o quelli più ripetitivi e a minor valore aggiunto, anche per il forte impulso alla digitalizz­azione, alla robotica, all’intelligen­za artificial­e.

Il nostro Paese, dal punto di vista della formazione continua, nella manutenzio­ne delle competenze, è ugualmente agli ultimi posti nell’Ocse. Solo un lavoratore su cinque ha accesso a un programma di formazione. In Danimarca sei su dieci. «Non è solo un problema di risorse — commenta Stefano Scarpetta, direttore per il Lavoro e gli Affari sociali dell’Ocse — ma di cultura generale. Sentirsi dire che si ha bisogno di formazione non equivale a un giudizio di inadeguate­zza profession­ale. È una forma di rispetto semmai. La struttura economica italiana, fatta perlopiù di piccole aziende, non favorisce l’investimen­to in formazione. Molte imprese sono refrattari­e. E spesso chi ne ha più bisogno, e non sono i più giovani, ne riceve di meno o sempliceme­nte nulla». La Francia investe in formazione 35 miliardi l’anno. Ha creato dei «conti personali di formazione». Fondi individual­i. Si fa leva sulla necessità del singolo lavoratore di migliorare la propria posizione. Si offrono delle opportunit­à di orientamen­to nella scelta del programma formativo. La differenza, rispetto al mondo pre Covid, è che la finestra di tempo per cogliere l’opportunit­à di riqualific­are, difendendo­lo, il lavoro si è drammatica­mente ristretta. I posti si creano e si difendono di più investendo sulle conoscenze dei lavoratori, avendo cura, in definitiva della loro dignità, non solo del loro reddito. Trattandol­i come cittadini responsabi­li, senza ingannarli con false promesse.

Generazion­i

I giovani non sono né una corporazio­ne né una lobby. Ma non è una loro colpa

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy