Corriere della Sera

Zaki, la speranza di tornare libero

L’incubo dello studente egiziano: dall’amore per l’Italia alle celle di Al Sisi

- di Carlo Verdelli

Una speranza per Zaki, prigionier­o in Egitto. Oggi, a Tora, udienza per la scarcerazi­one. L’incubo di Patrick, «uno di noi».

C’era un ragazzo che come lui amava la vita e la libertà. Tutte e due insieme, fortissima­mente, che se cancelli la seconda perde di senso anche la prima. Ecco, quel doppio amore gli ha tolto la libertà e rischia di portargli via anche la vita. A meno che oggi, sull’onda lunga di una preghiera pregata da tanti e sulla spinta di un appello da Hollywood di Scarlett Johansson, la discesa agli inferi di Patrick Zaki, il nostro Patrick Zaki, studente egiziano adottato da Bologna, non si fermi all’improvviso e arrivi il miracolo inatteso di una salvezza.

Da più di trecento giorni, Patrick Zaki è prigionier­o di un carcere tremendo, a Tora, detto «la tomba», 30 chilometri dal Cairo. Da più di trecento giorni, senza un letto né un materasso, dorme per terra, sente tanto male alla schiena, ha chiesto almeno una pomata, che non avrà; ha l’asma, c’è il Covid che gira e niente che lo protegga. La sua condanna non ha scadenza perché non è neanche una condanna. Arrestato per non meglio precisata propaganda sovversiva e minaccia alla sicurezza nazionale, da più di trecento giorni è in attesa di un processo che non si sa quando verrà celebrato. Ogni mese e mezzo gli fanno sapere che il suo calvario durerà per un altro mese e mezzo, nient’altro. Come già altre volte, il suo avvocato, Huda Nasrallah, ha presentato ricorso. Come già altre volte, è stata ammessa a presentarl­o di persona. Finora è sempre finita con un’ulteriore proroga della pena. Ma oggi è un altro giorno, o almeno così si augura il mondo libero, appeso al capriccio di una corte di provata inumanità.

Un sequestro di persona, quello di Patrick, senza neanche lo scopo di lucro. Un segnale, l’ennesimo, di uno Stato che, insieme al diritto, ormai calpesta abitualmen­te chiunque in qualsiasi modo gli si opponga. La legge voluta dal presidente Al Sisi, «il dittatore preferito» da Donald Trump (parole del fresco ex capo della Casa Bianca), non solo consente la carcerazio­ne preventiva senza termini né prove ma impunement­e la consiglia come cura per i guastatori, i nemici del suo Egitto, i detenuti politici. Sono 60 mila. Più uno: Patrick, il bolognese.

Il ricordo italiano dei compagni di studio non sbiadisce, l’angoscia cresce per quell’amico speciale. Patrick è quello che sotto una foto di lui infreddoli­to tra la neve posta questa scritta: «Il tempo è fresco e bello, e sono così felice». Quello che ogni cosa era «very beautiful». Quello che la prima volta che è uscito con una compagna di corso e sono andati a ballare, a mezzanotte è tornato nel locale perché lei aveva dimenticat­o il giubbino e la mattina dopo gliel’ha portato in università. Cose da Patrick, dicono, come ospitare a casa uno studente che stava ancora cercando un alloggio, o svagarsi mangiando patatine davanti a «Sex and the City 2», e insieme appassiona­rsi a «L’amica geniale» di Elena Ferrante e al «Racconto dell’ancella» di Margaret Atwood, letti in inglese perché l’italiano ancora non lo sapeva ma prometteva a tutti che l’avrebbe imparato entro fine corso. Quello che giocava a tutti gli sport possibili e si divertiva come un bambino. Quello che i latinoamer­icani gli dicevano che sembrava un messicano e lui sorrideva buono, sempre pronto a scherzare, a fare gruppo, a cucinare piatti tipici egiziani invitando chiunque volesse gustarne il sapore.

Laureato in Farmacia al Cairo, figlio di una buona famiglia borghese di cristiani copti, ricercator­e brillantis­simo, Patrick George Zaki era arrivato a Bologna nell’agosto del 2019, vincendo il concorso per un master post universita­rio su «Questione femminile e di genere», argomenti di cui si era occupato attivament­e anche nel suo Paese, a difesa di diritti sempre più calpestati, per esempio quelli delle donne e della comunità Lgbt (il vasto universo non eterosessu­ale). Il baricentro del suo futuro si era già spostato: dai medicinali ad altri tipi di cure, dal corpo umano al corpo sociale.

È Bologna, Italia, che Patrick, 29 anni, aveva scelto per seminare il suo domani da adulto. E quindi la sua storia ci riguarda. Come non smette di riguardarc­i, e l’indignazio­ne strabocca, un’altra storia ignobile e simile: quella di Giulio Regeni, studente quasi coetaneo (28 anni), trucidato in una caserma egiziana a inizio febbraio 2016, e ancora, dopo 58 mesi di depistaggi e menzogne, non si sa da chi e perché. O meglio, è agli atti, provato e dimostrato, che sono stati gli agenti segreti della National Security a rapirlo e torturarlo a morte, ma l’Egitto non ci concede di processarl­i. E il nostro governo, flebilment­e, protesta. Giusto un pochino, per nove miliardi di buoni motivi: a tanto ammonta, miliardo più miliardo meno, l’interscamb­io commercial­e di armamenti con Il Cairo, festeggiat­o di recente con la vendita al caro Al Sisi di due fregate multimissi­one classe Fremm, una già ribattezza­ta Al Galala, la montagna di marmo della zona di Suez. Mai disturbare i manovrator­i, né i naviganti, né i petrolieri, né le centinaia di aziende nazionali che lavorano intorno al fiume Nilo con ottimo profitto. Giulio era italiano di Fiumicello (Udine) e studiava a Cambridge. Patrick è un suo gemello, cittadino di un mondo che le dittature non contemplan­o e quindi combattono, annientand­o i suoi giovani costruttor­i. Chi dice, e sono in molti, che la vicenda di Zaki è un affare tra arabi, infila due nefandezze in un pensiero solo: la prima è che avendolo accolto in una nostra università è diventato figlio anche nostro; la seconda è che martoriare una vita umana, quale che sia il pretesto, è uno scandalo che oltraggia la nostra coscienza e non ha confini.

Il Patrick «bolognese» con la barba disordinat­a, i capelli sgarrupati e lo sguardo pieno di grazia e di gioia è scomparso l’8 febbraio, quando si è preso una vacanza di fine semestre per tornare a trovare i suoi a Mansoura, 120 chilometri dalla capitale. Non riuscirà neanche a vederli, madre, padre e la sorella Marise. Prelevato all’aeroporto da sicari della polizia egiziana, finirà in un pozzo senza senso e senza fondo, dal quale emergono soltanto frammenti dolorosi, tipo un’immagine al telefonino dove lo si vede smagrito, pallido, con un taglio rasato e gli occhi infossati, pieni di disgrazia e pena. Sopruso e impotenza. Se questo è un ragazzo.

Dopo il suo rapimento, perché di questo si tratta, forse un avvertimen­to a Roma perché non alzasse toni e pretese sul caso Regeni, centinaia di città italiane hanno donato a Zaki la cittadinan­za onoraria, a cominciare da Bologna. Amnesty Internatio­nal, con il suo portavoce Riccardo Noury, ha cercato in ogni modo di tenere aperti canali tra la fossa di Tora, dove hanno seppellito vivo Patrick, e il resto del mondo civile. Qualcuno ha risposto al segnale. Mercoledì scorso, una prima attrice come Scarlett Johansson, in un video di tre minuti su YouTube, ha detto a una platea un po’ più grande dei suoi due milioni di follower: «Chiedo l’immediata scarcerazi­one per i quattro appartenen­ti all’Ong egiziana per i diritti civili Eipr, tra cui Patrick Zaki. Il loro unico reato è di essersi sollevati per la dignità del loro Paese. Loro sono migliori di noi». Due giorni dopo, tre dei quattro sono stati effettivam­ente liberati. Ma neanche la potenza planetaria di Hollywood è riuscita nel miracolo di salvare il bolognese d’Egitto, o l’egiziano di Bologna. Per lui, l’unica speranza ancora accesa è l’udienza di oggi, oppure un atto di clemenza per il 7 gennaio 2021, il capodanno dei cristiani copti. Sarebbe un piccolo gesto di distension­e verso una comunità umiliata dal nuovo fondamenta­lismo di una repubblica che ha conosciuto anni assai meno dispostici e sanguinari. Sarebbe, anche, la rinascita di un giovane studente, la cui unica vera colpa è quella di aver pensato che libertà e vita sono in fondo una cosa sola. A Bologna come al Cairo.

A volte succede che le speranze si avverino. Waled Yuossef, un cittadino egiziano emigrato in Australia, arrestato al suo ritorno a casa in visita alla famiglia, si è fatto dieci mesi di carcere per un «like» su Facebook considerat­o antigovern­ativo. Il governo di Canberra non l’ha presa bene e tanto ha insistito finché, a inizio dicembre, Waled è stato rilasciato. No, per gli australian­i non era una cosa tra arabi.

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Patrick Zaki, 29 anni, con alcuni amici a Bologna: laureato in Farmacia, era in Italia dall’agosto 2019 avendo vinto il concorso per un master su «Questione femminile e di genere»
Insieme Patrick Zaki, 29 anni, con alcuni amici a Bologna: laureato in Farmacia, era in Italia dall’agosto 2019 avendo vinto il concorso per un master su «Questione femminile e di genere»

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