Joe Biden alla prova degli ayatollah: ripartenze e conti da regolare
Dietro l’attentato che ha ucciso il maggiore fisico nucleare dell’Iran, vi è un disegno: evitare che il nuovo presidente americano faccia l’esatto opposto del suo predecessore. Donald Trump aveva affossato l’accordo internazionale firmato da Barack Obama e altre potenze il 14 luglio 2015 sull’uso che l’Iran avrebbe fatto del suo uranio arricchito, e aveva rimesso Teheran in tal modo sul banco degli accusati. Joe Biden, invece, sembrava deciso a ripristinare l’accordo e gli attentatori speravano che gli sarebbe stato molto più difficile in un clima di violenze e minacce reciproche.
La prima reazione iraniana è stata equivoca. Con una frase che si presta a una duplice interpretazione, la Guida suprema Ali Khamenei ha dichiarato che il suo Paese avrebbe colpito «al momento giusto». Poteva significare che la vendetta sarebbe arrivata nel momento di maggiore efficacia, ma non escludeva la possibilità di una intesa e di un compromesso. Non è la prima volta che i due Paesi, nei loro rapporti, usano linguaggi prudenti e sembrano decisi ad aspettare tempi migliori.
Vi sono stati momenti, soprattutto durante la presidenza di Mahmud Ahmadinejad, agli inizi del 2000, quando il leader supremo iraniano approfittava delle assemblee dell’Onu per attaccare sguaiatamente lo Stato ebraico. Ma ve ne furono altri in cui i due Paesi avevano buone ragioni per andare d’accordo. Nel 1980, quando vi fu una guerra tra l’Iraq e l’Iran, Moshe Dayan, ministro degli Esteri israeliano, tenne una conferenza stampa a Vienna in cui esortò il governo americano a dimenticare il passato e ad assistere gli iraniani contro Saddam Hussein. Non fu ascoltato e gli americani in quel momento preferirono sostenere Saddam. Si ricredettero invadendo l’Iraq nel 2003, ma con motivazioni completamente infondate. Il passato di cui Moshe Dayan parlava è quello degli anni in cui Iran e Stati Uniti si scambiavano continui colpi di spada e di spillo. Gli iraniani non dimenticavano il colpo di Stato del 1953 quando Stati Uniti e Gran Bretagna si sbarazzarono di un primo ministro iraniano (il riformatore Mohammad Mossadeq) che aveva osato nazionalizzare i pozzi petroliferi del suo Paese (anni in cui gli Stati Uniti non erano ancora una potenza petrolifera e dipendevano dai Paesi del Medio Oriente). I nazionalisti iraniani ricordavano l’epoca in cui lo Scià era sentinella degli Stati Uniti nel Golfo Persico e il loro più fedele satellite nell’intera regione. Washington invece, dal canto suo, non ha mai dimenticato che il loro Paese, quando gli ayatollah presero il potere, era il «Grande Satana», che gli studenti di Teheran avevano occupato l’ambasciata americana e ne avevano fatto una prigione per 51 ostaggi dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981. Durante la presidenza Carter, nell’aprile 1980, gli americani tentarono di liberare gli ostaggi con 8 elicotteri e due aerei Hercules, ma l’operazione finì in una tempesta di sabbia e fu un clamoroso fallimento.
Non so quali conseguenze trarre da queste vicende se non l’amara constatazione che il Medio Oriente è una regione in cui niente viene dimenticato e tutti hanno un vecchio conto da regolare.