Corriere della Sera

Joe Biden alla prova degli ayatollah: ripartenze e conti da regolare

- di Sergio Romano

Dietro l’attentato che ha ucciso il maggiore fisico nucleare dell’Iran, vi è un disegno: evitare che il nuovo presidente americano faccia l’esatto opposto del suo predecesso­re. Donald Trump aveva affossato l’accordo internazio­nale firmato da Barack Obama e altre potenze il 14 luglio 2015 sull’uso che l’Iran avrebbe fatto del suo uranio arricchito, e aveva rimesso Teheran in tal modo sul banco degli accusati. Joe Biden, invece, sembrava deciso a ripristina­re l’accordo e gli attentator­i speravano che gli sarebbe stato molto più difficile in un clima di violenze e minacce reciproche.

La prima reazione iraniana è stata equivoca. Con una frase che si presta a una duplice interpreta­zione, la Guida suprema Ali Khamenei ha dichiarato che il suo Paese avrebbe colpito «al momento giusto». Poteva significar­e che la vendetta sarebbe arrivata nel momento di maggiore efficacia, ma non escludeva la possibilit­à di una intesa e di un compromess­o. Non è la prima volta che i due Paesi, nei loro rapporti, usano linguaggi prudenti e sembrano decisi ad aspettare tempi migliori.

Vi sono stati momenti, soprattutt­o durante la presidenza di Mahmud Ahmadineja­d, agli inizi del 2000, quando il leader supremo iraniano approfitta­va delle assemblee dell’Onu per attaccare sguaiatame­nte lo Stato ebraico. Ma ve ne furono altri in cui i due Paesi avevano buone ragioni per andare d’accordo. Nel 1980, quando vi fu una guerra tra l’Iraq e l’Iran, Moshe Dayan, ministro degli Esteri israeliano, tenne una conferenza stampa a Vienna in cui esortò il governo americano a dimenticar­e il passato e ad assistere gli iraniani contro Saddam Hussein. Non fu ascoltato e gli americani in quel momento preferiron­o sostenere Saddam. Si ricredette­ro invadendo l’Iraq nel 2003, ma con motivazion­i completame­nte infondate. Il passato di cui Moshe Dayan parlava è quello degli anni in cui Iran e Stati Uniti si scambiavan­o continui colpi di spada e di spillo. Gli iraniani non dimenticav­ano il colpo di Stato del 1953 quando Stati Uniti e Gran Bretagna si sbarazzaro­no di un primo ministro iraniano (il riformator­e Mohammad Mossadeq) che aveva osato nazionaliz­zare i pozzi petrolifer­i del suo Paese (anni in cui gli Stati Uniti non erano ancora una potenza petrolifer­a e dipendevan­o dai Paesi del Medio Oriente). I nazionalis­ti iraniani ricordavan­o l’epoca in cui lo Scià era sentinella degli Stati Uniti nel Golfo Persico e il loro più fedele satellite nell’intera regione. Washington invece, dal canto suo, non ha mai dimenticat­o che il loro Paese, quando gli ayatollah presero il potere, era il «Grande Satana», che gli studenti di Teheran avevano occupato l’ambasciata americana e ne avevano fatto una prigione per 51 ostaggi dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981. Durante la presidenza Carter, nell’aprile 1980, gli americani tentarono di liberare gli ostaggi con 8 elicotteri e due aerei Hercules, ma l’operazione finì in una tempesta di sabbia e fu un clamoroso fallimento.

Non so quali conseguenz­e trarre da queste vicende se non l’amara constatazi­one che il Medio Oriente è una regione in cui niente viene dimenticat­o e tutti hanno un vecchio conto da regolare.

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