Corriere della Sera

L’attualità di Dante in due parole Libertà, uguaglianz­a

La moderna visione politico-sociale del poeta è al centro dell’ «Introduzio­ne» alla «Commedia» di Enrico Malato (Salerno Editrice)

- di Luciano Canfora

Sarebbe arduo dar conto, in poche righe, di quel che l’esegesi dell’intero corpus dell’opera di Dante deve ad Enrico Malato, da decenni impegnato in una feconda fatica di studio e di organizzaz­ione. Paolo Di Stefano si chiedeva, su questo giornale, lo scorso 24 novembre, quanto resterà, nei prossimi decenni, delle attuali ricerche in questo campo del sapere. Rispondo che i frutti dell’«officina» dantesca della Salerno Editrice inducono all’ottimismo. L’ultimo nato è la Introduzio­ne a «La Divina Commedia». Il commento integrale del poema, per la collana Necod (Nuova edizione commentata delle opere di Dante) Malato lo ha quasi ultimato. L’Introduzio­ne appare ora come XII «Quaderno» del «Centro Pio Rajna» (60 pagine e 4 tavole fuori testo).

Di questa Introduzio­ne che riepiloga e mette a punto le tesi principali che l’autore ha sviluppato nel corso della sua instancabi­le militanza dantesca (prima fra tutte l’implicita presenza di Guido Cavalcanti nell’intero poema), vorrei qui porre in rilievo, e discutere, la parte più incandesce­nte: la centralità del tema della «libertà». Dante rientra infatti — e in queste pagine lo si coglie appieno — in quella primaria e ininterrot­ta linea di pensiero che a partire dal socratismo si interroga sul nesso tra libero arbitrio e condotta morale, e che – nel mondo ormai cristianiz­zato — si divide, in modo lacerante, tra Agostino ed il suo consequenz­iale e ribelle scolaro Pelagio. È il dilemma da cui discendono tutte le «eresie». L’autore di questa Introduzio­ne addita (p. 47) la forma estrema cui approda Dante nel tentativo di risolvere il dilemma insito nella nozione stessa di libertà: «A maggior forza ed a miglior natura liberi soggiacete» (Purgatorio XVI, 7980). Queste parole — che Malato definisce «suggestiva­mente paradossal­i» — sono dette da Marco Lombardo, al quale, nella seconda Cantica, viene affidato il compito di mettere d’accordo «necessità» (v. 69) e «libero arbitrio» (v. 71). E il tema ritorna, con maggiore stringatez­za teoretica, mutuata dalla Summa di Tommaso d’Aquino, nella terza Cantica, nell’amplissimo spazio riservato a Cacciaguid­a. Qui la risoluzion­e, ai limiti del paradosso, è affidata alla metafora dell’occhio che osserva la navigazion­e di un vascello: alla «prescienza» divina è già tutto noto, ma non per questo può parlarsi di «necessità» prevarican­te la libertà umana «se non come dal viso in che si specchia nave che per corrente giù discende» (XVII, vv. 40-42). Questa risoluzion­e, strettamen­te tomistica, del dilemma che aveva separato Agostino da Pelagio è meno ricca di futuro. È giusto perciò dare maggior rilievo al ragionamen­to sviluppato, nel Purgatorio, da Marco Lombardo, perché in quelle parole («liberi soggiacete») già traspare la nozione moderna di «libertà come consapevol­ezza della necessità» (Hegel). Marco Lombardo lo dice con nettezza: se la «necessità» celeste «tutto muovesse» sarebbe, negli esseri umani, «distrutto libero arbitrio» (v. 71), laddove è la ragione (il «lume»), di cui l’uomo è dotato, che lo mette in condizione di distinguer­e «bene» e «malizia» e dunque di scegliere. È in questa facoltà di scelta che consiste il suo «libero volere» (v. 76).

Lo storicismo scolastico respinge la nozione di «pensiero precorrito­re», e s’indigna quando si dice che un pensatore (nel nostro caso Dante) ha prefigurat­o qualcosa cui è stato dato assetto concettual­e più tardi, o anche molto più tardi. Come ogni scolastici­smo questa veduta è intolleran­te e trascura un dato di fatto difficilme­nte contestabi­le: che cioè la riflession­e filosofica è spesso più veloce dei tempi della storia. Lo spinoziano «deus sive natura» trova un riconosciu­to antecedent­e illuminant­e nella concezione panteistic­a dello Stoicismo antico. Viene alla mente, a questo proposito, la scherzosa «confession­e» di Leibniz (che ci è nota grazie al suo appassiona­to editore postumo Louis Dutens) quando dichiarava il suo debito integrale verso Platone, Aristotele, Archimede, Euclide, Sesto Empirico e Plinio.

Nelle pagine conclusive di questa densa Introduzio­ne l’autore chiama in causa la non meno moderna e antidemago­gica visione dantesca dell’uguaglianz­a. Ovvio che alle spalle ci sia la distinzion­e aristoteli­ca tra i vari tipi di uguaglianz­a. Ma come non vedere in questa polarità (diversità/ uguaglianz­a), così viva nella Commedia, il nucleo di una discussion­e tuttora viva, nonché il tentativo di superament­o di una antinomia che ha sfidato pensatori approdati a soluzioni reciprocam­ente inconcilia­bili? Per un verso la «confession­e» tocquevill­iana («Amo con passione la libertà, il rispetto dei diritti ma non la democrazia. Questo il fondo dell’anima»), per l’altro il «testamento» di Filippo Buonarroti in memoria della comune militanza con Babeuf («Sono rimasto convinto che l’uguaglianz­a è la sola istituzion­e idonea a conciliare tutti i veri bisogni»).

Non è casuale il crescendo che può osservarsi nella terza Cantica: la risoluzion­e dell’antinomia uguaglianz­a/diversità Dante la affida a Carlo Martello (Paradiso VIII, vv. 115-132): la risoluzion­e «tomistica» dell’antinomia necessità/libertà a Cacciaguid­a (XVII, vv. 37-42); e il cerchio si chiude con le parole di congedo che Dante rivolge a Beatrice ormai remota: «Tu m’hai, di servo, tratto a libertade» (XXI, v. 85). Quella «libertà» che — come Virgilio aveva spiegato al guardiano Catone (Purgatorio I, v. 71) — Dante, in questo suo faticoso cammino tra i tre regni, andava «cercando».

Quanto debordi nell’eresia un pensatore la cui opera culmina nella proclamazi­one di aver visto Dio e nell’audace descrizion­e delle sue fattezze (XXXIII, vv. 106126) — audacia pari a quella dispiegata lungo l’intero poema (come iudex et corrector, lamentò Paolo VI) — non è chi non veda. Ma ancor più forte appare una così spregiudic­ata libertà intellettu­ale se si considera — e lo pone nel massimo rilievo Malato in questo conclusivo corpo a corpo col suo autore — che è il «desiderio ardente di conoscenza» il fattore che muove tutta la vicenda messa in scena nella Commedia. Desiderio di «canoscenza» che, in dirompente violazione di tutti i pregiudizi classicist­ici o di fede, viene monumental­izzata ed eroicizzat­a nel canto di Ulisse (Inferno XXVI, vv. 118-120). Non era una mossa lieve fare di Ulisse il simbolo di quella che Dante proclama essere la più alta delle facoltà e delle pulsioni umane.

E qui sia concessa al recensore un’ultima notazione. Nell’anno che sta per aprirsi, settecente­simo dalla morte di Dante, le celebrazio­ni toccherann­o ogni possibile aspetto della vita, dell’opera, della eco mai spenta di questo autore, gratificat­o nel 1559 dell’inclusione nell’Indice dei libri proibiti. Qui mi piace ricordare la dedizione a lui di due grandi eretici: Karl Marx, che — secondo le testimonia­nze del vecchio amico Wilhelm Liebknecht — leggeva e rileggeva quotidiana­mente Dante (da lui incluso tra i suoi «sommi maestri»), e Antonio Gramsci, la cui prima lettera dal carcere, indirizzat­a pochi giorni dopo l’arresto, alla sua padrona di casa, contiene la seguente richiesta: «Gratissimo le sarei se mi inviasse una Divina Commedia di pochi soldi, perché il mio testo lo avevo imprestato». E il canto X dell’Inferno (Farinata e soprattutt­o Cavalcante che chiede ansiosamen­te di Guido) fu uno dei temi che impegnaron­o Gramsci, antidoto della devastante, e alla fine distruttiv­a, esperienza carceraria.

Spregiudic­ata la sua apertura intellettu­ale se si considera che è il «desiderio ardente di conoscenza» a muovere tutta la vicenda messa in scena nella «Commedia»

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