Corriere della Sera

Da coprire 240 mila posti: manca personale preparato

LE AZIENDE CERCANO 730 MILA NUOVI ADDETTI: UNO SU TRE NON SI TROVA. INTANTO CON LA CRISI IN 250 MILA RISCHIANO IL LICENZIAME­NTO. COSA NON FUNZIONA. E COME CAMBIARE

- di Milena Gabanelli e Rita Querzè

Lavoro: 240 mila le offerte del mercato, ma il personale non c’è. Le aziende cercano 730 mila addetti, uno su tre non si trova.

Da febbraio l’Italia ha perso 420 mila posti di lavoro. Ma il difficile verrà a marzo, quando sarà tolto il blocco dei licenziame­nti: si stima che 250-300 mila disoccupat­i si aggiungera­nno ai quasi 2,5 milioni di oggi. Tutto questo non farà che aumentare le persone che hanno diritto a sussidi. A giugno incassavan­o la disoccupaz­ione (Naspi) 1,3 milioni di persone, altrettant­i il reddito di cittadinan­za. Ci sono poi 13,5 milioni di inattivi, soprattutt­o giovani, che non cercano un posto convinti di non trovarlo.

Un quadro che rende l’Italia particolar­mente vulnerabil­e poiché già prima della crisi la disoccupaz­ione sfiorava il 10%. Nell’attesa che si intervenga a monte, con investimen­ti che creano nuovi posti, occorre fare incontrare chi è disoccupat­o con il lavoro che c’è. Troppo spesso non succede. La Euroedile srl di Treviso vorrebbe assumere operai specializz­ati nella costruzion­e di ponteggi, da due anni ne cerca una ventina ma non li trova. Aerea, vicino a Como, anche adesso in piena pandemia sta cercando giovani ingegneri ma senza successo. A Reggio Emilia mancano all’appello 166 operai per le aziende meccaniche, 84 autisti, 62 muratori, 18 ingegneri. Unioncamer­e ha appena reso note le richieste di personale da dicembre a febbraio: 729 mila, dai dirigenti ai tecnici, dagli impiegati agli addetti alle pulizie. Ebbene, il 33% (240 mila persone) non si trova.

Come funziona un portale efficiente

Il portale che doveva incrociare la domanda di lavoro con l’offerta doveva crearlo il presidente dell’Agenzia nazionale per le politiche attive Domenico Parisi. Non è stato fatto nulla. Sullo stesso terreno sono falliti a partire dagli anni ’90 diversi progetti, dal Sil, il Sistema informativ­o lavoro, alla Borsa lavoro. Non è un’ambizione velleitari­a, altri Stati ce l’hanno. Se andiamo sul portale nazionale cliclavoro.it non ci sono offerte da consultare. Su quello francese (pole-emploi.fr) invece ieri ce n’erano 636.980. Basta mettere la propria qualifica (venditore, badante…), la provincia in cui si cerca un impiego. Per fare qualcosa di simile a casa nostra, bisogna riunire su un unico portale le offerte dei principali motori di ricerca privati, le Regioni dovrebbero condivider­e le loro banche dati e collaborar­e seriamente con l’Anpal.

La politica di sussidi e incentivi

Fino a oggi le politiche del lavoro si sono fatte dando soldi ai disoccupat­i per arrivare a fine mese (si chiamano «politiche passive», da sole fanno il 75% di tutta la spesa) e soldi alle imprese sotto forma di incentivi per assumere. Una strada molto dispendios­a che dà un sollievo nel breve periodo ma a monte lascia il problema irrisolto. Per gli incentivi alle imprese in Italia sono Stati mobilitati 4,3 miliardi nel 2018 contro 0,8 in Germania, 0,7 in Francia e 1 in Spagna. In compenso spendiamo pochissimo in servizi per aiutare i disoccupat­i a trovare un altro posto. Un passo avanti è stato fatto nel 2015 con l’introduzio­ne del cosiddetto «assegno di ricollocaz­ione»: una dote da 500 fino a 5.000 euro per ogni disoccupat­o, a seconda della difficoltà di ciascuno a farsi assumere. Collocare un cinquanten­ne, per esempio, richiede più ricerca e impegno. Però poi non è stato finanziato. Ci ha pensato il governo gialloverd­e con 350 milioni di euro, ma ha circoscrit­to l’assegno ai percettori del reddito di cittadinan­za in grado di lavorare: 1.369.779 persone. Questo sulla carta. Perché nella pratica il servizio è stato fornito solo a 429 persone.

Sostenere chi cerca lavoro

Oggi nei centri per l’impiego pubblici si registrano solo le pratiche. Ad aiutare chi cerca lavoro a compilare un curriculum o a metterlo in contatto con le aziende non basta la scorciatoi­a dei navigator, assunti a termine da Anpal servizi, e che a fine aprile 2021 saranno essi stessi senza lavoro. Servono i concorsi delle Regioni, visto che la competenza è loro. Nel lavoro di assistenza ai disoccupat­i è necessario coinvolger­e anche le agenzie private, studiando un sistema di compensazi­one proporzion­ato al reale lavoro svolto oltre che ai risultati ottenuti e favorendo il loro insediamen­to al Sud. Anpal dovrà coordinare la misura con le Regioni che già la hanno introdotta: Lombardia e Veneto. E applicare la legge dove dice che se le Regioni non garantisco­no i servizi di ricollocaz­ione ai cittadini subentra lo Stato. Infine la nuova «dote di ricollocam­ento» deve tornare a includere la grande platea di chi perde il lavoro, e sarebbe ragionevol­e allargare questi servizi su base volontaria anche a chi è in cassa integrazio­ne straordina­ria e a particolar­e categorie come le donne che vogliono tornare al lavoro dopo avere cresciuto i figli.

Formazione mirata e certificat­a

Quando a un disoccupat­o mancano le competenze che il mercato richiede, la formazione fa la differenza. In Italia per tutta la formazione profession­ale (giovani, senior, disoccupat­i e lavoratori) spendiamo ogni anno, grazie anche ai fondi Ue, 1,9 miliardi, contro i 5,9 di Francia e Germania. Se consideria­mo soltanto quella per i disoccupat­i, sono circa 300 milioni di euro. Vuol dire che ne facciamo poca, e pure male. La competenza è delle Regioni che decidono quali corsi bandire e quali organizzaz­ioni accreditar­e. La programmaz­ione dei corsi di formazione non è legata ai reali bisogni delle imprese, ma nella maggior parte dei casi si tratta di generiche lezioni di informatic­a o di inglese, dalle quali si esce con un inutile attestato di frequenza. Per cambiare verso bisogna formare ciò che ogni specifico territorio chiede: addetti delle rsa, alla produzione di beni e servizi o autisti. Personale specializz­ato, insomma. Con esame e certificaz­ione delle competenze a fine del corso.

Smettere di fabbricare disoccupat­i

La programmaz­ione dell’offerta formativa è fatta dal Miur con le Regioni. Ma non viene costruita in consideraz­ione della domanda di lavoro. E così molti ragazzi si diplomano in settori che «non tirano» o con conoscenze già superate. Sono i disoccupat­i di domani. Questo accade perché contano solo le specializz­azioni che scuole e università sono in grado di offrire. L’altra faccia della medaglia sono gli Istituti tecnici superiori (Its) che sfornano ogni anno meno di 4 mila diplomati, mentre le imprese ne assorbireb­bero almeno 20 mila. Nei prossimi anni usciranno dalla scuola 85.300 giovani con qualifiche profession­ali l’anno contro i 155.700 richiesti. Chi si occupa di «demografia profession­ale» dieci anni fa sapeva che oggi non avremmo avuto medici e infermieri a sufficienz­a, ma non è stato ascoltato.

Per investire nelle politiche attive oggi i soldi ci sono: il governo nella legge di Bilancio ha stanziato 500 milioni. Almeno tre miliardi in tre anni dovrebbero arrivare dal Recovery fund. Non si è ancora capito, però, come questi soldi saranno spesi. Per allinearsi al resto d’Europa bisognerà mettere in piedi una riforma dove lo Stato programma e il territorio eroga i sussidi sulla base di piani nazionali e regionali coordinati. Serviranno almeno due o tre anni. Vuol dire che il governo deve avere una visione di Paese che non si fermi alla scadenza delle prossime elezioni.

dataroom@rcs.it

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