Corriere della Sera

Fame d’aria e tanta paura: cosa ricorderò della mia vittoria contro il Covid

Pier Giorgio Scrimaglio, manager: dalla «tossetta» giocando a tennis ai 9 giorni in terapia sub-intensiva

- di Pier Giorgio Scrimaglio

Ho preso il Covid, in una forma aggressiva: sono stato ricoverato per nove giorni in terapia sub-intensiva. Ora sono a casa, in convalesce­nza. Sono guarito, ma voglio fermare i ricordi di quello che mi è capitato. Non devono finire nel «cassetto della memoria».

24 ottobre. Come sempre, mi tengo in forma: tennis, camminate, bicicletta. Smart working e vita tranquilla. Vado a giocare a tennis. Ho una tossetta noiosa. Dopo dieci minuti mollo, con una scusa.

25 ottobre. A pranzo vado in bici, ho il fiato corto. 26 ottobre - 1 novembre.

Arrivano spossatezz­a e febbriciat­tola. Lo sciroppo della tosse è inutile: ho attacchi fortissimi. La situazione peggiora rapidament­e. Inizio a prendere antibiotic­i e cortisone, come da indicazion­e del medico di base. Fatico a mangiare e bere. Spesso non sono lucido. Il primo novembre, su suggerimen­to di un amico, vado in ospedale a Moncalieri. Mi fanno il tampone e le lastre ai polmoni: il referto è buono. Mi dimettono.

2-4 novembre. Sono positivo al Covid. Proseguo con

antibiotic­i e cortisone. Il saturimetr­o indica 92. Sono sempre più stanco. Comincia la fame d’aria, di notte non respiro. Gli amici sono in ansia: vivo solo, in un posto isolato.

5 novembre. Il saturimetr­o indica 87. Non mi voglio far ricoverare, trovo giustifica­zioni. Gli amici mi fanno capire che chiamare il 118 è l’unica cosa da fare. Mi ricoverano al Pronto soccorso Covid. Uno stanzone enorme, tranquillo, coi letti a cerchio come i carri del West quando sono attaccati dagli indiani. Le lastre ai polmoni evidenzian­o una polmonite interstizi­ale bilaterale. Sono disidratat­o. Mi mettono la mascherina dell’ossigeno che dà un po’ di sollievo, anche psicologic­o. La notte in qualche modo passa. Un mio vicino di letto muore. Arrivano gli infermieri, gli mettono sopra un «coperchio» e lo portano via.

6 novembre. Mi trasferisc­ono al reparto Covid. Sono tutti con lo «scafandro». Sono diviso da un separé dal mio vicino. Non lo vedo, sento che chiama a casa. Non so che ore sono. Chiudo gli occhi.

7 novembre. Al mattino gli infermieri misurano pressione, febbre e saturazion­e. Che non va bene. Parleranno coi dottori per il casco. Proseguono le cure. Remdesivir, antibiotic­i e soluzione fisiologic­a in flebo. Cortisone in vena ed Eparina in pancia. E quattro litri di ossigeno. Mi portano il casco ventilator­e: il rumore è assordante, sembra di essere in macchina a 200 all’ora coi finestrini aperti. Sento che mi fa bene. Lo terrò tutta la notte.

8 novembre. La mattina le infermiere dicono che va davvero meglio. Se il casco non avesse funzionato, mi avrebbero portato in terapia intensiva. Qui inizia la guarigione.

9 novembre. Attaccato a dei fili, respiro con le cannucce nel naso. Dormo controllan­do in continuazi­one di avere l’ossigeno. Non sto in piedi.

10 novembre. I valori si stanno normalizza­ndo. Ho sempre l’ossigeno, ma con minore intensità. Senza mascherina non respiro ancora. La tosse però è molto regredita. I medici sono soddisfatt­i.

11 novembre. Mi spostano dal reparto infettivi sub-intensivi a un reparto di chirurgia convertito per il Covid. Via l’ossigeno, la prima reazione è di paura.

12 novembre. La dottoressa mi ausculta il torace. Dice che è il momento di fare il tampone. Il risultato arriva nel pomeriggio: sono guarito e asintomati­co. Lascio il posto in ospedale a chi ne ha bisogno.

13 novembre. Mi danno il protocollo con le cure da seguire a casa, per la quarantena. C’è solo lo sciroppo per la tosse. Chiedo alla dottoressa se è sufficient­e. Sorride dietro la mascherina: di farmaci ne ho presi abbastanza. Arrivo a casa mia, calda e accoglient­e. Faccio una doccia, poi crollo. È il più bel venerdì 13 che abbia mai passato. E non lo voglio dimenticar­e.

Il peggiorame­nto

Il virus toglie gli stimoli. Ero poco lucido. Gli amici in ansia mi hanno spinto a chiamare il 118

Il casco mi ha salvato

Fuori pericolo e senza ossigeno, la prima cosa che ho temuto è stata di non respirare

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Pier Giorgio Scrimaglio, 60 anni, è export manager per la rivista Estetica (Edizioni Esav). La sua famiglia possedeva l’omonima cantina vinicola del Monferrato
L’autore Pier Giorgio Scrimaglio, 60 anni, è export manager per la rivista Estetica (Edizioni Esav). La sua famiglia possedeva l’omonima cantina vinicola del Monferrato

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