Corriere della Sera

Vi racconto com’è il mondo visto a 98 centimetri da terra

Francesca Moscardo La blogger Nanabianca ironizza sulla sua altezza «Nessuno si accorge che esisto, però posso entrare gratis a Gardaland»

- Di Stefano Lorenzetto

Al mattino si lava la faccia nel bidè. Vi è costretta dalla sua statura: 98 centimetri. «Un metro con la zeppa», trova il coraggio di scherzare la veronese Francesca Moscardo, 33 anni. Si fa chiamare la nana bianca, «come la stella di ridotte dimensioni e tuttavia di elevatissi­ma densità: grande quanto la Terra ma con una massa pari al Sole». Sottoposta a spettrosco­pia, la luce che lascia filtrare dal suo sito Nanabianca.blog appare formata da ironia e intelligen­za. Laureata in Storia dell’arte con 110 e lode, parla senza reticenze della sventura con cui ha dovuto fare i conti fin dalla nascita, la displasia diastrofic­a, malattia genetica rara che colpisce un individuo ogni 35.000. «Vuole sapere com’è il mondo visto a 98 centimetri da terra? Nessuno si accorge che esisto, perché la gente non abbassa mai lo sguardo. Non leggo i nomi sui campanelli delle case, poco male perché non arriverei a suonarli. Non riesco a premere i pulsanti degli ascensori. Non posso aprire le finestre o ritirare i soldi al Bancomat. Però entro gratis a Gardaland», ride.

Francesca Moscardo è web copywriter e social media manager nell’agenzia di comunicazi­one Lino’s & Co., sedi a Verona, Genova e Udine. Vive dalla nascita con il padre Sergio, 63 anni, infermiere oggi in pensione, e la madre Patrizia, 62, casalinga. Ha un fratello, Federico, 39, del quale dice: «Non ho mai avuto il coraggio di chiedere ai miei genitori se l’avrebbero messo al mondo qualora fossi nata prima di lui».

I suoi sapevano fin dalla gravidanza che era affetta da displasia diastrofic­a?

«Penso che l’abbiano scoperto solo al momento del parto. Fu uno shock. Però mi hanno voluto bene da subito».

Che cosa comporta questa malattia?

«Un difetto di accrescime­nto delle cartilagin­i e quindi la statura ridotta. Le giunture degli arti non si piegano, non riesco a fare il pugno. Nel pacchetto sono inclusi i piedi malformati». (Ride).

L’anomalia le dà grossi problemi?

«Appoggio le dita solo sulle punte, ritorte leggerment­e verso l’interno. Le scarpe sono la mia croce e delizia. Devo farmele costruire su misura. Attraverso il mio blog, mi chiedono consigli sulle calzature persino dagli Stati Uniti. Mi ha scritto una madre dal Venezuela, angosciata dalla situazione del suo bambino, chiedendom­i di promuovere una raccolta di fondi che ha lanciato per farlo operare alla colonna vertebrale. Non può certo contare, come in Italia, sul Servizio sanitario nazionale».

Lei ha subìto interventi chirurgici?

«Tre, due dei quali nel primo anno di vita. Uno ai tendini per raddrizzar­e i piedi, ma non è riuscito. Un altro per chiudermi il palato, essendo nata con la palatoschi­si. Il terzo alla spina dorsale, per una grave scoliosi. Non avevo ancora 9 anni. Jean Dubousset, un luminare del ramo, mi operò al Saint-Vincent-de-Paul di Parigi. Fra ospedale e struttura di lungodegen­za, quattro mesi nella capitale francese. Per fortuna c’era la mamma al mio fianco. Un intervento che mi segnò».

Immagino che sia stato complicato.

«E doloroso. Cominciò con la trazione Halo, un sistema di contenzion­e fissato intorno al cranio e collegato con barre metalliche a un busto in gesso diviso in due. Ogni giorno la distanza fra le parti del corsetto veniva aumentata di una frazione di millimetro, in modo che dopo tre mesi la colonna vertebrale fosse più distesa e pronta per l’operazione. Dovevo stare sempre sdraiata, in posizione supina o prona. Il tempo non passava mai».

Quando si rese conto che in lei c’era qualcosa che non andava?

«Alla scuola dell’infanzia. La maestra di sostegno mi portava in braccio su e giù dalle scale. Ma giocavo con tutti gli altri bambini. Non mi sentivo esclusa».

Abile, disabile o handicappa­ta? Quale definizion­e le si attaglia di più?

«Disabile. Sono una persona nana. Per me è un aggettivo, non una parolaccia».

Quindi Silvio Berlusconi non deve offendersi quando Beppe Grillo lo chiama «lo psiconano»?

«La trovo una definizion­e offensiva».

Com’è Verona osservata dal basso?

«Vedo cose belle e cose brutte. Sono all’altezza del posteriore altrui. Però nei muri degli edifici scopro i bassorilie­vi di epoca romana usati come pietre, ai quali la gente non fa caso. Soffro di claustrofo­bia. Già prima della pandemia evitavo gli assembrame­nti e i luoghi dove gli altri non mi vedono, come la discoteca».

Posso sapere quanto pesa?

«Non devo oltrepassa­re gli attuali 25 chili. Per mia fortuna, non ingrasso. Mi facilita il fatto di essere vegetarian­a».

Che cosa le è impedito di fare a causa della statura ridotta?

«Prendere il bus se sono da sola. Salire su un treno se non chiedo l’assistenza a Trenitalia. Camminare a lungo: mi stanco subito, devo usare la carrozzell­a e trovare qualcuno che mi spinga. Andare in bici o in motorino. Vestirmi con gli abiti che vedo nelle vetrine nei negozi».

Per via delle misure?

«Esatto. Dovrei acquistare pantaloni da bambina, ma avrebbero la vita troppo stretta. Mia madre ha dovuto imparare il mestiere di sarta da una vicina di casa».

La sua abitazione è attrezzata?

«Non direi. È disposta su tre piani, 21 gradini per salire nella mia camera».

Il blog Nanabianca a che le serve?

«È nato come un esercizio di socialità. Volevo scrivere, farmi vedere, imprimere una svolta alla mia vita lavorativa. Avevo bisogno di uno spazio per comunicare».

Le capita spesso di maledire la sorte che l’ha fatta nascere nana?

«I momenti di frustrazio­ne sono rari e durano poco, due giorni al massimo. Le sembrerà esagerato ciò che sto per dirle, ma sono quasi contenta di essere nata così in questo momento storico e con le opportunit­à che mi sono offerte. In altre epoche poteva andarmi peggio». (Ride). «Riesco a trasmetter­e messaggi che, con un corpo normale, non mi sarebbero nemmeno passati per il cervello».

Dove trova la forza per essere allegra?

«Dono di natura. In realtà maschero la timidezza. Affrontare una platea formata da più di 20 persone mi stressa».

Che cosa ama fare nel tempo libero?

«Viaggiare. Ma con l’auto mi affatico parecchio, perché non posso ovviamente usare i piedi. I comandi manuali impegnano molto le braccia. I miei record, in termini di distanze, sono Siena, Lucca e la Val di Ledro, che consiglio a tutti i disabili: la passeggiat­a intorno all’omonimo lago è pianeggian­te».

Quindi ha la patente.

«Me l’hanno data nel 2015, dopo un’infinità di visite della commission­e medica. Avrebbero voluto rendermi obbligator­i sull’auto un sacco di comandi costosi, ma per me inutili, come quelli vocali per le frecce direzional­i. Ho presentato ricorso e ho vinto».

Che auto guida?

«Una Fiat Panda adattata da un’officina specializz­ata in questo genere di modifiche. Sono costate 9.500 euro, per fortuna con l’Iva al 4 per cento anziché al 22».

È dura la città se sei in sedia a rotelle?

«Non durissima, ma se non vi fossero selciati disastrati, lastre di marmo sconnesse sui marciapied­i e gradini si potrebbe migliorare di molto la vita degli invalidi. Non parliamo dei banconi a misura di normodotat­i, che m’impediscon­o di frequentar­e Poste, Inps, banche o locali pubblici se non sono accompagna­ta».

Ma nonostante ciò sa cogliere il lato comico delle barriere architetto­niche.

«Che altro posso fare? Prenda la Feltrinell­i della mia città. Bella libreria, però le fotocellul­e aprono le porte solo se individuan­o una persona normale. La mia testa non le fa scattare, per cui devo sbracciarm­i in mezzo alla strada finché i sensori non rilevano che sono lì fuori».

Vedendola, la gente come reagisce?

«I figli piccoli dei miei amici mi scambiano per una coetanea e mi chiedono di giocare, ma si accorgono subito della gaffe e si allontanan­o. Gli anziani mi trattano come se fossi una bambina. Se un ragazzino pone domande su di me, i genitori lo trascinano via senza dare risposte. Allora dico loro: lasciatelo qui, gli spiego io che tutti nasciamo diversi».

Quali errori vanno evitati quando ci si approccia con un nano?

«Uno solo: toccargli la testa». (Ride). Ci sono molti anziani che lo fanno».

Penseranno che porti fortuna?

«Mah! Qualcuno ha anche osato prendermi in braccio. Mi è capitato sul bus a Roma. Una signora voleva fare un’opera buona. Inutilment­e ho cercato di dirle che mi avrebbero aiutato gli amici che erano con me. Mi ha tirato giù dal mezzo pubblico con la forza».

Qual è stato il momento più brutto della sua vita?

«Due anni prima di prendere la patente. Non ero autonoma, non vedevo un futuro profession­ale, mi sentivo soffocare. Ne sono venuta fuori con l’aiuto di una psicologa. Non pensavo che sarei riuscita persino a cucinare».

Nel 2019 in Danimarca sono nati solo 18 bambini con sindrome di Down, lo 0,029 per cento. Il governo ha deciso che l’anomalia genetica va sradicata con aborti selettivi. Che cosa ne pensa?

«Mi fa venire la pelle d’oca».

Accadrà lo stesso anche ai nani?

«Se una donna arriva alla decisione di abortire, non mi sento di giudicarla. Quello che trovo inquietant­e è che un governo incentivi l’eradicazio­ne di una specifica patologia, in virtù di una non meglio identifica­ta tensione verso una società perfetta. Quando lessi com’era la mia cartella clinica alla nascita, mi misi le mani nei capelli, ebbi l’impression­e di essere un mostro. Vedo le mie foto oggi e mi dico: non sei più la stessa persona».

Qual è il suo stato d’animo in questo preciso istante?

«Eeehm...». (Ci pensa). «Sto bene. Io sono felice, non mi vergogno a dirlo».

Tre dolorose operazioni appena nata. Per me nana è un aggettivo, non una parolaccia. Non dovete toccarmi la testa. Oggi sono felice

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Sorridente Francesca Moscardo, 33 anni. È alta 98 centimetri e pesa 25 chili. Nel tondo in basso, Francesca con la trazione Halo a 8 anni in ospedale a Parigi
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