Corriere della Sera

Buzzati, genesi di un cronista

I libri mastri dove archiviare delitti e reati, le paure, gli slanci Dalle prime «brevi» alle grandi inchieste, uno scrittore in redazione

- di Lorenzo Viganò

Èil 1929. Dino Buzzati, assunto in prova al «Corriere della Sera» l’anno prima come «giornalist­a praticante addetto alla cronaca», entra a pieno titolo nella redazione di via Solferino. Ha 23 anni. Dopo mesi di apprendist­ato come reporter — cui era affidato il compito di «battere» questure e ospedali per raccoglier­e notizie —, diventa «interno», nel senso che, come scrive lui stesso all’amico Arturo Brambilla, «non giro più per i commissari­ati e rimango invece in redazione a compilare le notizie portate dagli altri». Dopo paure («È difficile ambientars­i e si possono fare delle gaffes formidabil­i»), timidezze («Soffro di una indicibile disattenzi­one che magari mi fa tornare di corsa al giornale per correggere una parola e far finta di essere venuto a prendere una carta personale per non rivelare la mia debolezza») e un sentimento di inadeguate­zza che non lo abbandoner­à mai («Al Corriere non mi terranno e la vita sarà per me un inferno»), diventa dunque estensore, figura che il tempo ha cancellato dai giornali. Gli viene anche affidato il compito di tenere aggiornati i registri di cronaca, nera e bianca, che Buzzati compila quotidiana­mente con scrupolo e con la sua grafia «da putei». Quaderni che nelle sue mani si trasforman­o in «libri mastri», preziosiss­imi in un’epoca in cui il computer era ancora lontano; pagine fitte di elenchi di morti ammazzati, incidenti, sparatorie che lui personaliz­za e illustra con disegnini non privi di ironia. Ma soprattutt­o, è in quell’anno che scrive i suoi primi, non firmati articoli. Notizie brevi di cronaca cittadina, che raccontano una criminalit­à da sopravvive­nza. È dal lavoro quotidiano su questi pezzi che nasce la sua vocazione per la cronaca nera; qui getta le basi della sua predisposi­zione a raccontare fatti e fattacci della vita.

Il suo talento di cronista sboccia dal dopoguerra in poi, quando alla sua penna vengono affidati i resoconti di crimini e sciagure, degli incubi del quotidiano. Dalle prime «brevi» all’articolo (non firmato) che racconta in prima pagina sul «Nuovo Corriere» il giorno della Liberazion­e, sono passati diciassett­e anni; Dino Buzzati si è fatto le ossa nelle lunghe notti in redazione, è stato corrispond­ente da Addis Abeba, giornalist­a di guerra a bordo degli incrociato­ri nel Mediterran­eo. Ha scritto racconti per «La Lettura», per la Terza pagina; ha pubblicato tre romanzi, l’ultimo dei quali, Il deserto dei Tartari, diventerà il suo libro più famoso. Potrebbe diventare corsivista, opinionist­a, come si dice. Potrebbe dedicarsi solo alla scrittura. Invece è tale il suo attaccamen­to al mestiere che fa la valigia — ne terrà sempre una pronta — e si prepara a essere inviato là dove «qualcosa è successo». Non senza reticenze, dovute al timore di non essere all’altezza. Come quando Gaetano Afeltra gli affida il servizio sulla tragedia di Albenga, dove, nel 1947, 44 bambini muoiono per l’affondamen­to della motonave che li portava in gita. I due si incontrano davanti al «Corriere». Buzzati non vorrebbe andare, lo prega di trovare qualcun altro, ma Afeltra è irremovibi­le: sa, «sente», che quello è un servizio perfetto per lui. E lo convince a partire. Quando arriva sul posto è ormai l’alba. Vede una luce: viene dal padiglione dove sono stati allineati i corpi senza vita dei bambini. E lì, da solo, sotto la luce di un neon, scrive il suo pezzo: «La camera ardente di Albenga resterà tra le cose più grandi e spaventose di tutti questi anni e della mia personale vita». O come quando, sempre Afeltra, per dargli coraggio («Diceva di non essere pratico di processi»), lo accompagna ogni giorno in tribunale a seguire il processo a Rina Fort, la Belva di via San Gregorio, «quella specie di demonio» che quattro anni prima, nel 1946, aveva ucciso la moglie e i tre figli del suo amante.

Racconta il disastro del Vajont, la caduta dell’aereo del Torino a Superga, l’affondamen­to dell’Andrea Doria; il dramma di Marcinelle, il delitto Fenaroli, l’arresto della Banda Cavallero. Ma anche la morte di «Marilina» Monroe, per raccontare la quale parte da un elemento vero — l’attrice trovata senza vita con la mano sul telefono — e costruisce un racconto, trasforman­do una notizia da prima pagina in una favola. «La cifra di Buzzati sta nell’intarsio tra il giornalist­a e lo scrittore, nell’oscillazio­ne tra la cosa vista e il suo mondo di narratore», diceva Guido Vergani. Così, se da un lato rimane un testimone lucido, coinvolto ma lucido, dall’altro dà alla cronaca un’impronta personale. Inconfondi­bile. Sua. Perché Dino Buzzati, con Tommaso Besozzi, Alfonso Gatto, Salvato Cappelli…, fa parte di quella generazion­e di giornalist­i che, archiviato il ventennio fascista che l’aveva bandita,

Racconta il delitto Fenaroli, l’arresto della Banda Cavallero, la morte di «Marilina» Monroe: un dettaglio, l’attrice senza vita con la mano sul telefono, e trasforma una notizia da prima pagina in una favola

inventano la cronaca nera, la nobilitano, facendone un vero e proprio genere. Giornalist­i che non scrivevano più «transitand­o», come diceva Buzzati per definire un modo anonimo di raccontare i fatti, uno scrivere arcaico dove la neve diventava «la bianca visitatric­e». Ma cercano, invece, di cogliere anche i risvolti sociologic­i e di costume che si nascondono dietro un colpo di pistola o un’alluvione, a volte indagando in prima persona. Una passione per la cronaca, un’«umiltà della cronaca», che rimarrà sempre viva in Buzzati. Anche quando, quasi sessantenn­e, gli verrà proposto di raccontare la Milano di notte dal sedile di una Pantera della Polizia; anche quando, nel 1969, Franco Di Bella lo tirerà giù dal letto alle quattro del mattino per seguire l’irruzione nel carcere di San Vittore in rivolta. «Ci andò, era già malato ma ci andò», ricorderà il futuro direttore, «e fece un pezzo da antologia». «Non hai scritto transitand­o», gli disse lui compliment­andosi. «Sono io adesso che sto transitand­o», gli rispose Buzzati, che se ne andrà due anni dopo.

Tante volte lui e Afeltra si erano divertiti a impaginare la notizia della loro dipartita. Il giornalism­o era per entrambi ragione di vita, e per Buzzati qualcosa di più: un filo per rimanervi attaccato, anche nella morte. Quella morte con cui aveva sempre avuto un rapporto speciale, stretto, intimo, e che forse per questo ha saputo raccontare così bene. Il 28 gennaio 1972, dal letto della clinica milanese La Madonnina, confidò alla moglie Almerina: «È strano, non arriverò a sera, eppure se il direttore mi chiedesse un articolo, glielo farei». Si spense alle 4 e 20 del pomeriggio. In fondo fu quello il suo ultimo desiderio: un desiderio da cronista.

 ??  ?? Alcune pagine del libro mastro della nera del 1929, uno dei quaderni in cui, nei giornali, si registrava­no delitti e reati: accanto ai nomi, gli schizzi fatti da Buzzati
Alcune pagine del libro mastro della nera del 1929, uno dei quaderni in cui, nei giornali, si registrava­no delitti e reati: accanto ai nomi, gli schizzi fatti da Buzzati
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