L’insegna della Resistenza nel comunismo di Reichlin
Un volume pubblicato dalla Treccani ricostruisce la vita e l’opera politica del dirigente del Pci
Introducendo il volume Alfredo Reichlin. Una vita, Giuliano Amato, che con l’Istituto della Enciclopedia italiana aveva organizzato tre iniziative per ricordare la vita e l’impegno politico del dirigente del Pci, lo ricorda come un «comunista segnato più dalla missione etica e nazionale (risorgimentale) di cui il suo partito doveva farsi carico, che non dalle dottrine e dalle pratiche proprie del movimento cui apparteneva».
Anche se i numerosi contributi del volume edito da Treccani spaziano su tutta la lunga esperienza svolta da Reichlin nella sua storia di uomo di partito, fino alle sue riflessioni del XXI secolo una volta abbandonata la politica attiva, l’aspetto più interessante, e che spiega bene la frase di Amato, è proprio quello del punto di partenza, di quella idea che «sottrae il diciottenne Reichlin alla sua vita di adolescente e lo spinge nella Resistenza romana e nel Partito comunista, nel quale egli vede, come tanti giovani antifascisti del suo tempo, non l’organizzazione che porta alla sovietizzazione dell’Italia, ma quella più coinvolgente ed efficace per combattere il fascismo».
A cercare di approfondire lo spunto di Amato è l’intervento della curatrice del volume, Mariuccia Salvati, che apre la sezione «Storia» e s’intitola Una vita per la politica. Salvati ricorda come lo stesso Reichlin, negli anni Novanta, ritenesse storicamente conclusa l’esperienza che mezzo secolo prima l’aveva spinto ad avvicinarsi al comunismo, e pensasse alle sfide del presente con un forte senso di discontinuità rispetto a quel passato, considerandosi un «protagonista di un mondo finito». Partendo dal testo autobiografico che Reichlin dovette presentare al partito al momento della sua iscrizione, nel 1946, Salvati affida a quegli anni che intercorrono tra la Resistenza e il consolidamento della Repubblica, la spiegazione triplice di una traiettoria individuale, di una biografia collettiva, di una storia politica.
Reichlin rivendica, per evitare incomprensioni future, l’influenza del padre fascista, «un aristocratico che ha posto alla base della vita problemi ideali», che gli trasmette l’amore per i libri e perfino il suo primo orientamento antifascista all’epoca della guerra d’Abissinia; ma soprattutto ricorda il ruolo degli amici — di Luigi Pintor è compagno di classe — e quello degli appena più grandi conoscenti già impegnati, dal fratello di Pintor, Giaime, a Lucio Lombardo Radice.
È un’intera generazione, di cui si è più volte ricostruita la storia, non sempre con la necessaria acribia storiografica, a emergere e caratterizzare il passaggio dal fascismo all’antifascismo, di cui già nel 1941 Giaime Pintor scriveva che non credeva avesse «sete di trascendenza, di lotta col demone, di miti eroici e di sublimi orrori», ma pensava dovesse sfruttare «unendo una estrema freddezza di giudizio alla volontà tranquilla di difendere la propria natura».
È la generazione di cui fanno parte anche Luciano Cafagna e Miriam Mafai, che in parte condivideranno ma anche contrapporranno le proprie esperienze a quelle di Reichlin nei decenni successivi, a vivere il tentativo politico di cui tutti, comunque, subiranno l’influenza: la costruzione del partito nuovo da parte di Togliatti, che vuol dire per Reichlin, anche, il superamento di quella «brutta» esperienza del partito settario che aveva conosciuto subito dopo l’8 settembre 1943.
Giuliano Amato ricorda la «camicia di forza» con cui Reichlin viveva l’ortodossia comunista, che gli impediva di fare i conti come avrebbe voluto «con la cultura di massa di una società industriale avanzata (fu così che Ugo Pecchioli arrivò a definirlo “scissionista” e Togliatti decise di mandarlo in Puglia)»; mentre Mariuccia Salvati ricostruisce lo sforzo togliattiano di creare un nuovo e duraturo rapporto tra gli intellettuali e il partito, di cui fu anche parte la proposta di porre Gramsci al centro della riflessione teorica «nazionale» su cui costruire la strategia della via italiana al socialismo. Ella rammenta come Togliatti credesse molto alla «formazione di un nucleo di giovani colti» capaci di «trasferire il ribellismo sul terreno della politica», valorizzando i dirigenti già più maturi (Ingrao, Giolitti, Lombardo-Radice), ma anche i giovanissimi come Reichlin e Pintor che non a caso saranno entrambi figure di spicco dell’«Unità».
Reichlin, come molti suoi coetanei (non tutti, ovviamente: basta ricordare qui Luciano Cafagna o Italo Calvino), difese la propria scelta di «libertà comunista» anche negli anni del più duro settarismo e del più profondo ideologismo staliniano avallato da Togliatti. Non volle mai metterla in discussione, come fecero, invece, alcuni della generazione di dieci anni più anziana: Aldo Cucchi, Valdo Magnani, Antonio Giolitti, Fabrizio Onofri. Il contributo suo e della sua generazione, infatti, sarebbe emerso con forza soprattutto dopo la morte di Togliatti, quando la dialettica dentro il Pci poté riprendere con maggiore vigore.
Alla base della sua indipendenza di giudizio, anche quando questa gli impediva di fare i conti fino in fondo con la storia del comunismo, come emerse nel dialogo a tre con Vittorio Foa e Miriam Mafai (portato sulle scene da Luca Ronconi come racconta con vivacità Roberta Carlotto nel volume), era quella scelta compiuta nel 1943.
Spirito critico «Viveva l’ortodossia comunista come una sorta di camicia di forza»