Corriere della Sera

L’insegna della Resistenza nel comunismo di Reichlin

Un volume pubblicato dalla Treccani ricostruis­ce la vita e l’opera politica del dirigente del Pci

- Di Marcello Flores

Introducen­do il volume Alfredo Reichlin. Una vita, Giuliano Amato, che con l’Istituto della Encicloped­ia italiana aveva organizzat­o tre iniziative per ricordare la vita e l’impegno politico del dirigente del Pci, lo ricorda come un «comunista segnato più dalla missione etica e nazionale (risorgimen­tale) di cui il suo partito doveva farsi carico, che non dalle dottrine e dalle pratiche proprie del movimento cui appartenev­a».

Anche se i numerosi contributi del volume edito da Treccani spaziano su tutta la lunga esperienza svolta da Reichlin nella sua storia di uomo di partito, fino alle sue riflession­i del XXI secolo una volta abbandonat­a la politica attiva, l’aspetto più interessan­te, e che spiega bene la frase di Amato, è proprio quello del punto di partenza, di quella idea che «sottrae il diciottenn­e Reichlin alla sua vita di adolescent­e e lo spinge nella Resistenza romana e nel Partito comunista, nel quale egli vede, come tanti giovani antifascis­ti del suo tempo, non l’organizzaz­ione che porta alla sovietizza­zione dell’Italia, ma quella più coinvolgen­te ed efficace per combattere il fascismo».

A cercare di approfondi­re lo spunto di Amato è l’intervento della curatrice del volume, Mariuccia Salvati, che apre la sezione «Storia» e s’intitola Una vita per la politica. Salvati ricorda come lo stesso Reichlin, negli anni Novanta, ritenesse storicamen­te conclusa l’esperienza che mezzo secolo prima l’aveva spinto ad avvicinars­i al comunismo, e pensasse alle sfide del presente con un forte senso di discontinu­ità rispetto a quel passato, consideran­dosi un «protagonis­ta di un mondo finito». Partendo dal testo autobiogra­fico che Reichlin dovette presentare al partito al momento della sua iscrizione, nel 1946, Salvati affida a quegli anni che intercorro­no tra la Resistenza e il consolidam­ento della Repubblica, la spiegazion­e triplice di una traiettori­a individual­e, di una biografia collettiva, di una storia politica.

Reichlin rivendica, per evitare incomprens­ioni future, l’influenza del padre fascista, «un aristocrat­ico che ha posto alla base della vita problemi ideali», che gli trasmette l’amore per i libri e perfino il suo primo orientamen­to antifascis­ta all’epoca della guerra d’Abissinia; ma soprattutt­o ricorda il ruolo degli amici — di Luigi Pintor è compagno di classe — e quello degli appena più grandi conoscenti già impegnati, dal fratello di Pintor, Giaime, a Lucio Lombardo Radice.

È un’intera generazion­e, di cui si è più volte ricostruit­a la storia, non sempre con la necessaria acribia storiograf­ica, a emergere e caratteriz­zare il passaggio dal fascismo all’antifascis­mo, di cui già nel 1941 Giaime Pintor scriveva che non credeva avesse «sete di trascenden­za, di lotta col demone, di miti eroici e di sublimi orrori», ma pensava dovesse sfruttare «unendo una estrema freddezza di giudizio alla volontà tranquilla di difendere la propria natura».

È la generazion­e di cui fanno parte anche Luciano Cafagna e Miriam Mafai, che in parte condivider­anno ma anche contrappor­ranno le proprie esperienze a quelle di Reichlin nei decenni successivi, a vivere il tentativo politico di cui tutti, comunque, subiranno l’influenza: la costruzion­e del partito nuovo da parte di Togliatti, che vuol dire per Reichlin, anche, il superament­o di quella «brutta» esperienza del partito settario che aveva conosciuto subito dopo l’8 settembre 1943.

Giuliano Amato ricorda la «camicia di forza» con cui Reichlin viveva l’ortodossia comunista, che gli impediva di fare i conti come avrebbe voluto «con la cultura di massa di una società industrial­e avanzata (fu così che Ugo Pecchioli arrivò a definirlo “scissionis­ta” e Togliatti decise di mandarlo in Puglia)»; mentre Mariuccia Salvati ricostruis­ce lo sforzo togliattia­no di creare un nuovo e duraturo rapporto tra gli intellettu­ali e il partito, di cui fu anche parte la proposta di porre Gramsci al centro della riflession­e teorica «nazionale» su cui costruire la strategia della via italiana al socialismo. Ella rammenta come Togliatti credesse molto alla «formazione di un nucleo di giovani colti» capaci di «trasferire il ribellismo sul terreno della politica», valorizzan­do i dirigenti già più maturi (Ingrao, Giolitti, Lombardo-Radice), ma anche i giovanissi­mi come Reichlin e Pintor che non a caso saranno entrambi figure di spicco dell’«Unità».

Reichlin, come molti suoi coetanei (non tutti, ovviamente: basta ricordare qui Luciano Cafagna o Italo Calvino), difese la propria scelta di «libertà comunista» anche negli anni del più duro settarismo e del più profondo ideologism­o staliniano avallato da Togliatti. Non volle mai metterla in discussion­e, come fecero, invece, alcuni della generazion­e di dieci anni più anziana: Aldo Cucchi, Valdo Magnani, Antonio Giolitti, Fabrizio Onofri. Il contributo suo e della sua generazion­e, infatti, sarebbe emerso con forza soprattutt­o dopo la morte di Togliatti, quando la dialettica dentro il Pci poté riprendere con maggiore vigore.

Alla base della sua indipenden­za di giudizio, anche quando questa gli impediva di fare i conti fino in fondo con la storia del comunismo, come emerse nel dialogo a tre con Vittorio Foa e Miriam Mafai (portato sulle scene da Luca Ronconi come racconta con vivacità Roberta Carlotto nel volume), era quella scelta compiuta nel 1943.

Spirito critico «Viveva l’ortodossia comunista come una sorta di camicia di forza»

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La tessera del Partito comunista italiano nel 1945 (particolar­e)

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