Le spie con i nomi dei bambini morti
Scotland Yard usava l’identità dei piccoli scomparsi per i propri agenti. Ora le famiglie chiedono giustizia
Si sono viste portare via un figlio due volte, la seconda nel più crudele dei modi. E ora chiedono giustizia. Mezzo secolo fa Faith Mason seppellì Neil, il primogenito disabile scomparso all’età di sei anni. Nel 1973 Barbara Shaw perse il suo: Rod Richardson aveva cinque giorni. Vite spezzate e madri in lutto, ignare di quanto il destino e la polizia di Sua Maestà britannica avevano in serbo per acuire il loro dolore a decenni di distanza. Due madri, due ferite che si riaprono quando si scopre che due agenti dello spionaggio interno hanno vissuto letteralmente nel nome di Neil e di Rod. Rubando l’identità di quelle giovani anime morte.
Con documenti intestati e un passato fittizio per coprire una condizione di doppi infiltrati: in un gruppo di estremisti e nell’esistenza di un bambino mai cresciuto, in un’organizzazione di animalisti e nella storia di chi non aveva avuto il tempo di farsene una.
Le famiglie di questi morti hanno fatto causa per danni morali a Scotland Yard, che risponde no comment. Con Faith e Barbara ci sono altri «derubati». I parenti di un bambino di 5 anni morto in vacanza in Yugoslavia. Honor e
Frank, fratelli del diciottenne Michael Hartley, annegato nel 1968 alla prima missione su un peschereccio: finì in mare, corpo mai trovato, mamma suicida. Una tragedia ideale per i servizi segreti, che tra il 1982 e il 1985 si infiltrarono con il suo nome in due gruppi: il Socialist Workers Party e il Revolutionary Communist Group. I ladri di morti si incistano come cuculi nel nido dei piccoli, degli scomparsi. E tanto meglio se una madre muore di crepacuore: meno testimoni.
Nel 2008 un’inchiesta del Guardian portò alla luce questa e altre storie che sono il disonore di Scotland Yard: almeno 42 casi in tre decenni. Una pratica «bruciata», visto che già nel 1971 veniva descritta da Frederick Forsyth nel romanzo «Il giorno dello sciacallo». Ma anche dopo la notorietà, la polizia non la abbandonò, anzi: nei manuali, nel gergo interno, divenne «la corsa dello sciacallo».
È stata la digitalizzazione dei certificati di morte, più che un sussulto morale, a farla passare di moda. Tre ex agenti (che si sentivano un po’ in colpa, ma «era per una causa giusta») spiegarono al Guardian il modo in cui venivano scelte le «ex persone» da resuscitare (per quattro anni). Come attori che seguono un metodo per immedesimarsi nel personaggio, «dopo aver trascorso ore» spulciando i registri dei defunti in cerca di quello giusto, il più anonimo, possibilmente il più piccolo, le spie andavano sulla tomba degli alias, visitavano i paesi dove avrebbero dovuto crescere, annotavano i dettagli della casa natale, le linee di
autobus che avrebbero preso se fossero andati a scuola. Gli sciacalli della SDS (Special Demonstration Squad) si appropriavano del corposo futuro dei morti, oltre che dell’esile passato. Facevano la patente e guidavano al loro posto. Riempivano vite dolorosamente incompiute, ed è questa forse la cosa più atroce.
Secondo un breviario della Metrolitan Police, oggi declassificato, la ricerca doveva allargarsi fino a «stabilire lo stato respiratorio dei familiari del morto». Se «respiravano ancora», bisognava accertarsi che gli fosse difficile entrare in contatto con i membri del gruppo dove la spia doveva infiltrarsi sancendo quelli che testualmente venivano definiti «i diritti degli abusivi sull’identità degli sfortunati».
Be’, Faith Mason respira ancora. E accusa i capi in divisa degli «squatter» 007. Così come Barbara Shaw. Il suo Rod fu l’ultimo a essere «rapito» da morto: un agente con il suo nome spiò un gruppo anti-capitalista fino al 2003. Rod, cinque giorni di vita: «È passato tanto tempo, ma è ancora il mio bambino».