Corriere della Sera

Tutti in lacrime per Pablito

Il funerale di Rossi, la commozione dei suoi compagni del Mondiale ‘82 che portano in spalla la bara. Cabrini: «Paolo continua a starmi vicino». La moglie Federica stringe a sé le loro due bambine che piangono

- Di Marco Imarisio DAL NOSTRO INVIATO

Piangono, che altro possono fare. Se questo funerale è un pezzo della nostra vita che se ne va, figurarsi per loro. Piange Antonio Cabrini, quando i necrofori gli sistemano la bara di legno chiaro sulle spalle, è ora di andare, l’ultimo saluto al suo amico Paolo deve cominciare. Accanto a lui c’è Bruno Conti, con la faccia stravolta, non riesce a farsene una ragione. Claudio Gentile, che nella memoria rimane sempre il difensore implacabil­e ed energico, prova a dire due parole ai cronisti oltre le transenne. La voce gli si spezza in gola dopo la prima frase. Torna subito nel gruppo, abbracciat­o da Marco Tardelli. Ci sono gesti di antica familiarit­à che non si sono persi lungo questi 38 anni. Giancarlo Antognoni che fa una carezza sulla testa di Beppe Bergomi voltato di schiena, i sorrisi affettuosi che accolgono Beppe Dossena, oggi un uomo di 62 anni ma in quel luglio ormai così lontano i giornali ce lo raccontava­no come la mascotte del gruppo. È proprio lui ad affermare con un pensiero da ragazzo una verità cruda, filtrata con pudore da questi giorni di lutto, che rende ancora più triste questa giornata. Fatico ad accettare che sia morto giovane, dice. «Continuo a sperare che almeno non abbia sofferto, ma temo che non sia stato così».

I Campioni del Mondo 1982, così si sono firmati nel necrologio apparso sul Corriere della Sera, «Per il mondo Pablito, per noi il nostro sorriso», sanno di avere addosso gli occhi di tutti. Anche in maniera se vogliamo crudele, perché i funerali servono anche a questo, a misurare il tempo che passa, e perché si sa che gli eroi non dovrebbero invecchiar­e mai, tanto meno andarsene così presto, come è stato costretto a fare Paolo Rossi. «Chi è quel signore con i capelli bianchi?» si chiedono in tanti mentre il feretro sta per entrare nel Duomo di Vicenza. È Franco Causio, il Barone, il campione della Juve, il quarto e il più bravo della famosa partita a scopone con Sandro Pertini, Enzo Bearzot e Dino Zoff sull’aereo presidenzi­ale che riportò a casa gli azzurri. E quell’altro, che regge la bara? Ma certo, è Giampiero Marini, una vita da mediano se mai ce n’è stata una, anche se la canzone poi parla di Lele Oriali, che cammina due passi dietro di lui.

Sono qui per salutare Paolo che non c’è più, non per ritrovarsi, non per sé stessi, ma per lui, nel nome di un discorso mai interrotto, di quello strano impasto di nostalgia, affetto e cameratism­o che può capire fino in fondo solo chi ha condiviso uno spogliatoi­o, un gruppo, in definitiva una amicizia. Qualcuno di loro fa una smorfia di fastidio quando gli arriva all’orecchio un «grande Marco!», «grande Spillo», ma sono comunque poche grida fuori luogo. La folla non è una vera folla, lo sarebbe se non ci fosse il maledetto virus, nel Duomo ci sono spazi vuoti e ingressi contingent­ati. È una cerimonia raccolta, Paolo Rossi, la sua famiglia, i suoi amici, i suoi compagni, di quella e di altre squadre. Ma fuori, collegata in diretta, c’è e si sente l’Italia che lo aveva adottato come una delle sue immagini migliori, per sobrietà, per senso della misura nella cattiva come nella buona sorte. Per la sua capacità di invecchiar­e con maturità, ed è così che avrebbe dovuto essere.

«Continua a starmi vicino per favore». Con un filo di voce, parla per tutti Antonio Cabrini, l’amico di sempre, con il quale condividev­a una quotivale dianità sradicata solo dalla malattia. Siamo stati parte di un gruppo, di quel gruppo. Pensavo che avremmo camminato insieme ancora a lungo. Sono quelli come te che rendono bella l’amicizia. Non ti lascerò andare. Prometto di stare vicino, a Federica e ai tuoi figli, ma tu resta vicino a me». La moglie di Paolo Rossi stringe le sue bambine che piangono. Marco Tardelli, che non ha detto una parola e ha la faccia che sembra scolpita nel marmo, esce dal banco e le stringe in un abbraccio che

Tardelli abbraccia Gentile che non riesce a parlare, le lacrime irrefrenab­ili di Conti

davvero come una promessa, siamo qui, ci saremo, qualunque cosa succeda. Giuseppe Galderisi, il Nanu che fu, compagno di Juve e di Mondiale ’86, scoppia a piangere. «Volevo essere Rossi, ho sempre voluto essere il nuovo Paolo Rossi» aveva detto fuori dalla chiesa. Seduto nella fila opposta, tra la gente comune, Paolo Maldini, che in Spagna non c’era ma ha tante ragioni per essere qui, ha gli occhi rossi. Infine, non resterà che una immagine. L’ultima, di questo saluto privato e pubblico al tempo stesso. I Campioni del Mondo che portano la bara dell’amico morto giovane sulle spalle, verso l’ultimo viaggio. Sono invecchiat­i, come è naturale che sia, eppure ci sembrano uguali a come erano in quei giorni di luglio, ancora fedeli a quella tensione morale, all’eredità che hanno creato donandoci il momento più bello della nostra adolescenz­a. Federica Rossi tiene stretta tra le mani una rosa rossa. Oriali nasconde la testa nel Loden per non far vedere le lacrime, Bruno Conti singhiozza disperato. Vi vogliamo bene. A Pablito, e a tutti voi.

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