Corriere della Sera

I SEGNALI AMBIGUI

- di Paolo Mieli

Èpreoccupa­nte che per giorni il governo abbia preso in consideraz­ione l’idea di cedere sul permesso di valicare i confini dei piccoli comuni a Natale, Santo Stefano e Capodanno. È preoccupan­te non perché quella concession­e sarebbe stata priva, almeno in parte, di giustifica­zioni. Ma perché ciò che avrebbe indotto il presidente del Consiglio a compiere tale scelta è parso essere il desiderio di offrire un segnale di apertura alle forze politiche che, con baldanza o copertamen­te, da qualche giorno lo insidiano. Per «trattare» con chi cerca di sgambettar­lo, il capo del governo si sarebbe dunque apprestato ad ammettere (implicitam­ente) che, quando varò il provvedime­nto per limitare gli spostament­i nei giorni festivi, non si era reso conto della differenza che c’è tra una metropoli con milioni di abitanti e un piccolo centro popolato da poche anime. E avrebbe finto adesso di riparare a quell’errore, tornando sui propri passi così da offrire agli italiani un’opportunit­à di ricongiung­imento natalizio con i propri nonni. Mentre altri Paesi europei, con meno morti di noi, si accingono, per le feste di Natale, ad adottare misure assai severe (in primis la Germania), qui in Italia è stata messa in discussion­e la raccomanda­zione a trascorrer­e i giorni di festa in esclusiva compagnia degli abituali conviventi. E lo si è fatto per ragioni esclusivam­ente tattiche.

Una sorta di «rimpasto sanitario» concesso alle parti politiche più insofferen­ti, attuato per giunta nel mentre la comunità scientific­a, pressoché al completo, scongiurav­a di rinunciare a prendere misure di apparente buon senso che avrebbero però potuto avere conseguenz­e deleterie.

È sbagliato far paragoni con l’estate scorsa. Allora ci si poteva davvero illudere che il peggio fosse alle spalle. Ed era in qualche modo lecito coltivare tale illusione pur a dispetto del parere di molti medici che ancora esortavano alla prudenza. Sicché gli errori commessi a quell’epoca sono parzialmen­te perdonabil­i. Molto, molto parzialmen­te. Semmai una comparazio­ne si può fare con le settimane tra la seconda metà di settembre e la prima di ottobre in cui il virus aveva ripreso a diffonders­i in importanti Paesi europei e l’Italia non adottò per tempo le misure che avrebbero potuto porre argine alla cosiddetta seconda ondata. Si ripeté, a parti invertite, ciò che era accaduto alla vigilia della primavera. Dieci mesi fa l’Italia fu colpita per prima, Francia e

Spagna non vollero capire che la pandemia avrebbe con ogni probabilit­à varcato i loro confini e qualche settimana dopo furono travolte. In autunno, invece, il contagio ha dilagato inizialmen­te in Francia, Spagna e persino in Germania. Toccava a noi far tesoro della lezione invernale e assumere ai primi di ottobre le decisioni che saremmo stati costretti a prendere a novembre. Cioè, imperdonab­ilmente, dopo ben quattro Dpcm, quando ormai il Covid aveva ripreso anche da noi a mietere vittime in abbondanza. Si privilegiò ad inizio autunno il desiderio di non compiere scelte che avrebbero potuto compromett­ere la stabilità politica e il risultato si è visto.

In Italia si sottovalut­a la fragilità intrinseca e l’inevitabil­e erraticità di un governo che non ha ricevuto in nessuna forma un qualche consenso degli elettori ed è anzi figlio di una manovra parlamenta­re avente come esclusivo (ancorché legittimo) scopo quello di mettere fuori gioco l’avversario ed impedirgli una rivincita nelle urne. Un governo del genere per sua natura non ha una missione condivisa, né le parti che ad esso hanno dato vita si sentono in obbligo di obbedire a principi di coerenza e lealtà così da poter esibire tali comportame­nti al cospetto degli elettori. Ognuno, ogni singolo partito, ogni formazione minore ma anche ogni microfrazi­one deve render conto solo ai propri tifosi (qualcuno gli elettori li ha già persi da tempo) in vista di aggiustame­nti, uno dietro l’altro, che si conta siano vantaggios­i in termini di potere. Basta che non si torni alle urne, qualsiasi iniziativa è lecita.

La sanità nazionale, in nome della quale si combatte la battaglia decisiva, è la prima vittima di questo modo di procedere. La prova è che ad essa sono stati destinati solo nove miliardi dei 209 che dovrebbero arrivarci dall’Europa. Come è stato possibile? Il ministro della Salute, Roberto Speranza, proviene da una piccola forza politica che non ha alcun potere di ricatto e dal momento che, anche se l’avesse, ad ogni evidenza non ne farebbe uso, al suo dicastero è stata assegnata una somma pari ad un terzo di quella che lui stesso a fine primavera aveva richiesto (25 miliardi). Un ammontare, sia detto per inciso, assai inferiore a quello che, per una valutazion­e largamente condivisa, sarebbe necessario a rimettere in sesto la nostra sanità (65 miliardi). Speranza se ne è lamentato ma non più di tanto. Forse perché impercetti­bilmente ammaccato a seguito della complicata gestione della caotica vicenda del commissari­o alla sanità calabrese. Più probabilme­nte perché non ha voluto unire la sua alle iniziative destabiliz­zanti all’indirizzo di Conte. In questo modo i miliardi per la sanità verranno (forse) aumentati ma difficilme­nte in una misura congrua alle difficoltà del momento. Non è così che si vincono le guerre.

Nell’estate scorsa ci si poteva illudere che il peggio fosse alle spalle. Ma a novembre tale equivoco non era più possibile

Alla sanità sono stati destinati solo 9 miliardi dei 209 che dovrebbero arrivarci dalla Ue E ne sarebbero necessari 65

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