Corriere della Sera

Conte dà il via alla verifica L’apertura di Berlusconi

Il «rito» (pieno di insidie) nato nella Prima Repubblica

- di Tommaso Labate

Conte avvia la verifica e oggi incontra il M5S. Salvini: il centrodest­ra ha i numeri per essere autonomo.

«Non ci sono contrasti interni alla Dc. Tutto il partito è solidale con il presidente De Mita». Il 18 maggio del 1989, come si legge nella prima pagina del Popolo, giornale democristi­ano, cadeva di giovedì. La frase di Vincenzo Scotti — all’epoca maggiorent­e democristi­ano, negli ultimi anni a ragione o a torto censito tra i mentori di Luigi di Maio — è scolpita all’interno di un editoriale dal titolo «Dc disponibil­e al dialogo per la chiarezza», anticipato da un occhiello che recita «verifica nella maggioranz­a». «I contrasti non sono tra di noi», garantiva il segretario del partito Arnaldo Forlani, giurando sul giurabile che l’inquilino di Palazzo Chigi su quel fronte poteva dormire sonni tranquilli.

Ventiquatt­r’ore dopo, del governo De Mita non rimaneva che la cenere. Bettino Craxi aveva rinsaldato i bulloni del vecchio Caf con Andreotti e Forlani, i socialisti avevano chiuso il loro congresso negando ogni spiraglio all’esito positivo della verifica e al presidente irpino non era rimasta altra strada che rassegnars­i alle dimissioni e rassegnarl­e subito dopo.

Chissà se ieri, ascoltando trentun’anni dopo ai tg la dichiarazi­one di Di Maio su Giuseppe Conte («Qualcuno semina zizzania, è fuori dal mondo metterlo in discussion­e»), i superstiti di quell’antica vicenda non hanno avvertito il brivido di quando si è di fronte a un déjà-vu, quella sensazione tra lo stupore e la sorpresa che piomba in ogni animo tutte le volte che all’improvviso ci si trova a chiedersi «ma questa scena l’ho vista o no?».

Già, perché non c’è verifica di maggioranz­a — che sia Prima, Seconda o presunta Terza repubblica — che non contempli la negazione giurata del fuoco amico. Nata come messa a punto degli equilibri interni alle forze politiche a seguito del cambio dei rapporti di forza (magari dopo elezioni amministra­tive o europee), la «verifica» è finita spesso — non sempre, spesso — per essere il momento della detronizza­zione di un premier; che un minuto prima, soprattutt­o dagli «amici», viene sempre e comunque negata. A volte anche di fronte all’evidenza.

La verifica è una maledizion­e che colpisce anche a scoppio ritardato. Lo sa bene Romano Prodi, che dal 30 settembre al 16 ottobre 1997 superò indenne — con tanto di dimissioni respinte da Scalfaro — le forche caudine di una verifica aperta dal fuoco di fila di Rifondazio­ne comunista contro la legge finanziari­a. Un anno dopo, il suo governo non c’era più.

Andò meglio a Silvio Berlusconi nel 2003, anche se il suo esecutivo fu sul punto di piombare nel baratro proprio nel bel mezzo di una visita ufficiale di Vladimir Putin. Mentre faceva gli onori di casa al presidente russo, il Cavaliere venne raggiunto da una dichiarazi­one del vicepremie­r Gianfranco Fini, che chiedeva «una verifica di maggioranz­a» con tanto di ridefinizi­one di squadra e programma di governo. «Ma Gianfranco vuole andare agli Esteri? Mi ha giurato di no», chiese imbufalito il premier. L’altro negò. La crisi fu scongiurat­a ma tra i due, dopo questo passaggio, nulla sarebbe stato più come prima.

La regola aurea della verifica,

La regola di Andreotti

Diceva il leader Dc: se i motivi della verifica sembrano fumosi, allora il governo rischia

per come l’aveva tramandata ai suoi Giulio Andreotti, rimane una sola: quando le sue radici di fondo sembrano fumose e incomprens­ibili, allora vuol dire che il governo corre un rischio serio; al contrario, quando la miccia che innesca la possibile crisi è concreta e chiara a tutti, allora paradossal­mente è più facile che si risolva tutto in un battito di ciglia.

Il diretto interessat­o l’aveva sperimenta­to in prima persona, quando sulla questione di fiducia posta sulla legge sul riassetto del sistema radio-televisivo (la Mammì) si era trovato alle prese con le dimissioni di ben cinque ministri, tra cui l’attuale capo dello Stato. Crisi risolta in quaranta secondi. Tanti erano serviti al «Divo» per annunciare al Parlamento le dimissioni dei cinque vecchi ministri e la nomina, già firmata dal capo dello Stato Cossiga, dei cinque nuovi. Con un solo errore: «Il professor Cesare Marongiu», annunciato in sostituzio­ne del dimissiona­rio Riccardo Misasi, si chiamava in realtà Giovanni. La fretta, a volte, qualche scherzo lo fa.

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