Corriere della Sera

UNHCR, L’IMPEGNO PER UN MONDO IN CUI NESSUNO DEBBA PIÙ FUGGIRE

Nazioni Unite L’Alto Commissari­ato compie settant’anni: è una ricorrenza scomoda, perché purtroppo la sua missione è sempre più ampia e sarebbe meglio se non dovesse esistere

- di Filippo Grandi

Caro direttore, oggi l’Alto Commissari­ato delle Nazioni Unite per i Rifugiati compie 70 anni. Per un’organizzaz­ione che avrebbe dovuto cessare di esistere dopo soli tre anni, è un anniversar­io scomodo, uno di quelli che non si festeggian­o.

Mentre il mondo iniziava a rinascere dopo la Seconda guerra mondiale, all’Unhcr fu dato il compito di trovare rifugio a migliaia di persone che il conflitto, in Europa, aveva obbligato alla fuga. Il 14 dicembre 1950 nacque l’ufficio dell’Alto Commissari­o con un mandato limitato nel tempo, geografica­mente circoscrit­to ed esplicitam­ente non politico, come se la sua esistenza fosse un ricordo del dolore da spazzare via presto, insieme alle macerie.

Ma presto ecco nuovi conflitti, quindi più rifugiati, e la missione dell’Unhcr ha continuato ad allargarsi. L’era post-coloniale è stata accompagna­ta da lotte di liberazion­e, poi da lotte per il potere, che hanno costretto milioni di persone alla fuga. Anno dopo anno, l’Unhcr ha dovuto assistere un numero di rifugiati in costante, tragica crescita.

Il 2019 ha segnato quattro decenni di esodi forzati dall’Afghanista­n. Il 2021 segnerà un decennio di conflitto in Siria. E così via, una serie di anniversar­i indesidera­ti, nuovi conflitti che emergono o riemergono, mentre gli effetti di quelli vecchi devono ancora sbiadire.

L’Unhcr ha lavorato in ogni modo, e con ogni risorsa disponibil­e, per proteggere le persone in fuga. Questo ha spesso comportato difficili compromess­i. Non siamo presenti quando si decidono i destini delle nazioni e dei popoli, ma siamo sempre in prima linea, vicino alle persone costrette a fuggire. Siamo un’organizzaz­ione apolitica, ma il nostro lavoro — tra crisi e emergenze — comporta una diplomazia complessa e delicata, decisioni difficili e scelte quasi impossibil­i con le quali ci siamo confrontat­i cercando di proteggere e assistere milioni di persone in mezzo a conflitti violenti e complicati, con risorse inadeguate.

I colleghi dell’Unhcr, da sempre, sono fieri di proteggere, cambiare e salvare tante vite umane. E sono determinat­i ad affrontare nuove sfide, come l’emergenza climatica o la pandemia del coronaviru­s, fattori che amplifican­o i già significat­ivi problemi posti dalle migrazioni forzate.

Ma vorrebbero non doverlo fare. Perché se ci fossero più accordi per un cessate il fuoco; se per più rifugiati fosse possibile ritornare a casa in sicurezza e dignità; se più governi si facessero carico di accogliere e ricollocar­e più rifugiati da quei Paesi — spesso privi di risorse — che già ne accolgono milioni; se gli Stati rispettass­ero gli obblighi internazio­nali, e i principi fondamenta­li della protezione dei rifugiati, come quello di non respingerl­i e riconsegna­rli a guerre e violenza; se tutto questo accadesse, noi dell’Unhcr avremmo molto meno problemi di cui occuparci e preoccupar­ci.

La realtà è diversa. Nell’ormai lontano 1994, nel Paese che allora si chiamava Zaire (ed è ora la Repubblica Democratic­a del Congo), facevo parte della squadra d’emergenza che l’Unhcr aveva spedito alla frontiera ruandese: in soli quattro giorni, un milione di uomini, donne e bambini avevano attraversa­to il confine fuggendo dal Ruanda lacerato dal genocidio e dalla violenza, per poi essere decimati a migliaia dalla peggiore epidemia di colera dei nostri tempi.

A noi, che dovevamo proteggere i rifugiati, toccò invece scavare tombe. E se, facendo il nostro lavoro, pensiamo spesso alle vite che abbiamo contribuit­o a difendere — a quei momenti di luce in cui la disperazio­ne si trasforma in speranza anche grazie ai nostri sforzi — non smettiamo mai di pensare a quelle che non siamo riusciti a salvare.

Quasi un anno fa, il numero totale di rifugiati, sfollati interni, richiedent­i asilo e apolidi ha raggiunto l’1% dell’umanità. Una percentual­e terribile, che aumenta ogni anno. Dobbiamo chiederci: quando sarà considerat­a inaccettab­ile? Quando raggiunger­à il 2%? Il 5%? Quante persone devono ancora subire il lutto e l’affronto dell’esilio prima che i leader politici decidano di affrontare sul serio le cause di quelle fughe?

Così, in occasione del 70° anniversar­io dell’Unhcr, la mia sfida alla comunità internazio­nale è questa: mandatemi a casa. Cercate veramente di costruire un mondo in cui non ci sia bisogno di un’organizzaz­ione delle Nazioni Unite per i rifugiati, un mondo in cui nessuno sia costretto a fuggire. E non fraintende­temi: per come stanno le cose, il nostro lavoro è fondamenta­le e necessario, ma il paradosso è che non dovremmo esistere. E se ci ritroverem­o a osservare molti altri anniversar­i, l’unica conclusion­e sarà che tutti insieme abbiamo fallito nel compito fondamenta­le di fare la pace. Alto Commissari­o delle Nazioni Unite

per i Rifugiati

L’organizzaz­ione, nata alla fine della Seconda guerra mondiale, avrebbe dovuto operare solo per tre anni

Il numero totale di rifugiati ha raggiunto l’1 per cento dell’intera umanità: una percentual­e terribile

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