«Fratelli di Crozza», una galleria di maschere più vere del vero
Nonostante le innegabili difficoltà legate al contesto pandemico, Maurizio Crozza ha concluso una delle sue migliori stagioni di «Fratelli di Crozza» (Nove, venerdì). Senza il pubblico in teatro a fare da cassa di risonanza alla sua satira, Crozza ha dovuto in parte reinventarsi, sapendo di non poter contare sulle reazioni empatiche, su quel feedback immediato che scandisce il tempo delle battute.
Un ruolo che è rimasto tutto a carico dell’ottimo Andrea Zalone, ormai ben più che una spalla. Per fortuna, in un contesto di generale privazione, un ingrediente che a Crozza non è mai venuto a mancare è il materiale umano da cui pescare per la sua galleria di maschere, che anzi è stato vario e abbondante come non mai. Due in particolare le categorie che hanno salvato la stagione, assolvendo al delicato e quasi impossibile compito di far ridere (amaro) nella tragedia: presidenti di regione e virologi. Sui primi si è già scritto molto, mentre dei secondi (probabilmente un unicum mondiale), Crozza ha saputo catturare come nessun altro il presenzialismo mediatico, i narcisismi, le rivalità accademiche che ogni settimana hanno offerto con generosità, rischiando anche di minare la propria autorevolezza scientifica per un’ospitata in più. Spesso in contesti televisivi che di scientifico avevano ben poco. Come accade con le migliori imitazioni, Crozza ha trasformato la caricatura del professor Zangrillo in una maschera più vera del vero, raccontandone l’addio alla tv neanche fosse il ritiro dall’agonismo di un grande campione di calcio. Alla fine, l’assenza del pubblico si è risolta in un pungolo creativo, che ha portato la produzione a lavorare maggiormente su sketch registrati, alla «Saturday Night Live» americano, creando delle vere e proprie chicche come la bonaria presa in giro di Alberto Crisanti ambientata in un remake pandemico del Settimo sigillo di Ingmar Bergman.