Corriere della Sera

Rabbia e delitti di un fallito di mezza età

- di Marco Imarisio

La casa del boia era quella accanto. Ma per qualche tempo l’associazio­ne culturale che si prendeva cura dell’edificio storico dove aveva vissuto colui che eseguiva le pene capitali durante la Repubblica marinara, fu costretta ad appendere un cartello al portone. «Non è questo il luogo del delitto». Fu invece nell’abitazione poco distante, all’estremità di piazza Cavour, che Donato Bilancia uccise i coniugi Maurizio Parenti e Carla Scotto. Ancora nei primi anni del nuovo secolo, passeggian­do in quel sestiere, qualcuno sosteneva di avvertire un presentime­nto inquietant­e. Quella suggestion­e finì ben presto. Per causa sua, del serial killer più efferato della storia d’Italia. Per quel che era lui. Uccise 17 persone, nel giro di pochi mesi, dal 15 ottobre 1997 al 16 aprile 1998. «La mia consecutio temporum», la chiamava così. Eppure, nonostante quel sangue e quella breve stagione di angoscia, Bilancia non ha mai fatto breccia nell’immaginari­o collettivo. Non è mai stato famoso come il mostro di Firenze, come Olindo e Rosa, Erika e Omar. E di questo se ne dispiaceva. «Ma chi, il Valter?». Nel sottobosco di Genova, lo conoscevan­o tutti. Un disgraziat­o che tirava a campare tentando di fare il simpatico nei locali notturni. Uno che aveva combinato poco, si sentiva in debito con la sorte e stava invecchian­do. Tutto qui. «Lei sta dicendo che ha ucciso quelle persone solo perché era arrabbiato con il mondo?» gli chiese Enrico Zucca, il magistrato che riuscì a farlo confessare. «Belin, le sembra poco?» rispose lui, che dopo l’arresto tentò di costruirsi addosso un personaggi­o da Grande Satana. Non riuscì neppure in quello. Perché divenne subito chiaro che il suo era un male stanco, più stupido che perverso. Era lo sfogo stagionale di un fallito di mezza età, che meritava solo di essere dimenticat­o.

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