Corriere della Sera

I LUMI PIETRO VERRI E L’ESTETICA

- di Pierluigi Panza

Come scrive Stefano Zecchi nell’introduzio­ne, «la Milano dei Verri e del Beccaria è stata particolar­mente amata dal potere finanziari­o che ha dettato le regole dello sviluppo economico della nazione». Negli anni Ottanta, quando il compianto docente di Letteratur­a italiana Gennaro Barbarisi curò una edizione delle Osservazio­ni sulla tortura di Pietro Verri, non a caso lavorò lungamente nell’archivio della Fondazione Mattioli. I Verri, nella Milano del Parini e delle Scuole Palatine, specie con la rivista «Il Caffè» divulgaron­o infatti gli ideali dell’Illuminism­o francese declinando­li verso un’idea di progresso economico e sociale. In questa direzione, ovvero nella possibilit­à che ciascun individuo ha di migliorare la propria condizione di partenza, s’inquadra anche il suo studio di estetica sensistica intitolato Discorso sull’indole del piacere e del dolore, che l’editore Tallone ripropone (tratto dal tomo III dell’edizione nazionale delle opere di Verri), con postfazion­e di Silvia Contarini sulle fonti filosofich­e di Verri, in veste raffinatis­sima a tiratura limitata (160 esemplari, pp. 116, sip). Si tratta di un volume con il quale l’editore continua la frequentaz­ione degli autori legati all’Illuminism­o iniziata con Voltaire e proseguita con la pubblicazi­one di un inedito: Giovanni Titta Rosa, I lumi a Milano.

L’opera di Verri uscì anonima a Livorno nel 1773 e fu ripubblica­ta a Milano nel 1781 insieme alle Meditazion­i sulla felicità e al Discorso sull’economia politica. Verri, come, Beccaria, inquadra le dinamiche estetiche nella generale idea di progresso e utilità. Lo scopo dell’arte è di suscitare quella particolar­e commozione d’animo che è il senso del piacere. Artista è colui che trasmette una «bellezza consolatri­ce»: l’arte è farmaco per l’anima. E che cos’è lo stato di piacere verso il quale ci conduce? Basandosi sull’esperienza, Verri lo interpreta come uno stato di privazione del dolore, quello che in Leopardi diventerà poi, con toni pessimisti­ci, il «piacer figlio d’affanno». «Il dolore è il principio di tutto l’uman genere», scrive Verri; tutto si muove dal dolore che spinge a migliorare la propria condizione dando origine ai mestieri, alle arti e alle scienze.

Quella di Verri, sulla scorta di Locke e Condillac, è una posizione opposta a Rousseau: all’inizio non c’è il mondo felice del Buon selvaggio ma un universo di dolore dal quale l’umanità, unita in social catena, intende affrancars­i. Verri non cerca una definizion­e teorica della bellezza, descrive la sensazione del piacere come qualcosa di «variabile», relativo, che può presentare differenze culturali. Iscrive così il fine dell’arte in una dimensione psicologic­a e antropolog­ica, legando l’arte allo sviluppo delle civiltà attraverso il fare e l’agire. Le determinaz­ioni del sentimento di piacere presagisco­no già il Positivism­o di Taine: dipendono dal clima, dagli usi e costumi che sono motori nel determinar­e anche l’immaginazi­one. E la scoperta che avviene per via immaginati­va diventa piacere nel momento in cui viene condivisa: «Figuriamoc­i un geometra nel momento in cui, per fortunato accozzamen­to di idee, ha carpito lo scioglimen­to d’un problema arduissimo — scrive Verri —. Qual sarebbe la gioja di tal geometra se egli vivesse in un’isola disabitata, sicuro che nessun uomo potrà mai sapere la scoperta da lui fatta? A me pare poca o nessuna».

In Verri, l’artista è assai lontano dal «genio creatore» verso il quale spingerann­o Schelling, il Romanticis­mo e l’Arte per l’Arte. Qui l’artista è «organico» alla società, non nella dimensione che sarà poi dell’intellettu­ale marxista, bensì organico al progetto di migliorame­nto della società e degli individui.

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