Corriere della Sera

«Sbattuti in cella, al buio, umiliati senza neanche un pezzo di sapone»

I pescatori in viaggio verso Mazara: «Ci avevano divisi, un altro detenuto ci ha aiutato»

- Felice Cavallaro

Ci sono volute più di tre ore per ricaricare le batterie e sono sembrate quasi più lunghe di quei tre mesi passati da una cella all’altra di Bengasi. Quando, all’una di notte, i motori dei due pescherecc­i si sono riaccesi, Pietro Marrone, il comandante del Medinea, ha attivato la radio di bordo. Come il comandante dell’Antartide. Rassicuran­do gli armatori, Marco Marrone e Leonardo Gangitano, in contatto con i familiari dei 18 pescatori. Mamme, mogli e figli già in festa per accoglierl­i domani mattina al porto di Mazara del Vallo.

Ancora un giorno di navigazion­e «dieci nodi l’ora» per questi uomini pronti a sottoporsi a tampone, quarantene, interrogat­ori del Ros, decisi comunque a «ripartire anche psicologic­amente» dopo questa avventura che «al solo pensarci non fa dormire la notte», come echeggia dai cosiddetti baracchini che collegano il porto alle barche.

Anzi alle «varcuzze», come le chiama in dialetto Marrone evocando la gioia di giovedì quando i libici li hanno riportati in banchina, davanti ai pescherecc­i, senza spiegare che cosa fosse accaduto: «Sembrava un giorno come tanti. Arriva una guardia e dice: “Preparatev­i che dobbiamo andare via”...». È il diario del giorno numero 108. Una frase rincuorant­e, «ma non del tutto», come spiega Marrone dalla cabina del Medinea, finalmente fuori dalle acque libiche, gli occhi su una fregata della Marina italiana inviata a fare da scorta. L’invito della guardia non appariva rassicuran­te: «A metà novembre, accadde la stessa cosa. Ma poi ci portarono in un altro carcere. Quattro ce ne hanno fatto cambiare in tre mesi. Sempre lasciandoc­i al buio, facendoci arrivare un po’ di cattivo cibo in ciotole di latta...». È il racconto di un tormento continuo. Con il terrore del peggio: «Non sapevamo se saremmo rimasti vivi. In questi Paesi ognuno ragiona per i fatti suoi. Non sapevamo da chi eravamo stati presi, da quale pezzo di Libia. Non dimentiche­remo le umiliazion­i. Non violenze. Ma pressioni psicologic­he. È stato complicato: accendevan­o e spegnevano le luci, a loro piacimento».

Ed ancora: «Terribile non potere parlare fra di noi. Gli italiani divisi dai tunisini, separati. Non ci vedevamo nemmeno tra di noi. Tutti insieme una volta solo dopo 70 giorni. Perché?». Tanti i dettagli da riferire ai carabinier­i delegati per i primi verbali a Mazara. Ma ecco la ricostruzi­one di Marrone: «Dopo l’assalto a colpi di mitragliat­rice, ci hanno sbattuto in carcere senza il tempo di portare qualcosa con noi. Nemmeno le cose intime. Una maglietta, un pezzo

Attesa e rabbia

L’arrivo domani in Sicilia. Ma una moglie protesta: «Il governo ha agito in ritardo»

di sapone ci sono arrivati grazie a un detenuto che ci aiutava. Non per tutti. Senza umanità. La barba finalmente fatta giovedì mattina dopo un mese. La svolta grazie all’Italia, a quanti ringraziam­mo...».

La radio gracchia e le ultime parole di Marrone si perdono mentre a Mazara esplode la rabbia di una donna che si è sgolata in questi mesi anche davanti a Montecitor­io, Cristina Amabilino, moglie di uno dei marittimi, Bernardo Salvo: «Il governo ha perso tempo prezioso. Non lo ringrazier­ò mai perché ha agito comunque in ritardo, sbagliando fin dall’inizio. Il giorno dell’assalto la Marina parlò di un elicottero che in 20 minuti avrebbe difeso i nostri uomini. Quell’elicottero non è mai arrivato...». Altro dettaglio di un’inchiesta aperta.

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A bordo Da sinistra: Bernardo Salvo, Pietro Marrone, Onofrio Giacalone, Mathlouthi Habib, Ben Haddada M’hamed, Mathlouthi Lysse (Ansa)

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