Scacco a Haftar Il generale e il silenzio che lo circonda
Siamo proprio sicuri che Khalifa Haftar sia uscito rafforzato dalla visita di Conte e Di Maio a Bengasi? A giudicare dal silenzio dei suoi avversari in Tripolitania e Turchia, verrebbe da rispondere con un secco no. Tacciono il premier Fayez Sarraj e i suoi consiglieri. Non si esprimono le milizie legate al fronte dei Fratelli musulmani. Soprattutto, non reagisce il presidente turco Erdogan, che in autunno ha inviato i suoi soldati assieme ai mercenari siriani per fermare l’offensiva delle forze armate di Haftar contro Tripoli. Il rais della Cirenaica si dice l’unico interlocutore nell’Est del Paese, ben posizionato per mirare al controllo della Libia intera. In effetti almeno un risultato l’ha conseguito, ricevendo in pompa magna i due massimi esponenti di un importante Paese europeo: dimostra la marginalità del presidente del Parlamento di Tobruk, quell’Aguila Saleh che ad agosto pareva in grado di metterlo in ombra. Alla prova dei fatti, cambia poco negli equilibri del complicato puzzle libico. Già da ottobre Saleh appariva indebolito. «Haftar ha liberato i marinai italiani. E in cambio la Libia cosa ha ottenuto? Nulla», scrivono in tanti sui social della Tripolitania. Non hanno tutti i torti. Sarraj e i suoi si sono resi conto che per il governo di Roma era vitale riportare a casa i pescatori per Natale. Di fronte all’atto di pirateria e al ricatto di Haftar, la scelta italiana di andare a Bengasi è stata una mossa pragmatica per ottenere subito un risultato tangibile. In cambio, gli è stato spiegato che l’Italia non è una dittatura e il potere legislativo è indipendente da quello giudiziario. I quattro «calciatori-scafisti» libici restano in cella. Saranno i tribunali, eventualmente, a rivederne la sorte. Anche la riapertura del consolato di Bengasi è condizionata alla nascita di un governo unitario in Libia. Insomma, parole. In pochi giorni la vicenda sarà dimenticata. L’imbroglio libico, però, resterà più grave e delicato che mai.